Capita guardando youtube, a volte su indicazione di amici più informati, di incappare in personaggi improbabili, seguaci di un iperrealismo contraffatto, a buon mercato. Il nome non ha importanza: il personaggio fagocita il soggetto parlante e la sua azione è impersonale, segue una corrente di accidia collettiva mascherata in vitalità.

Uno degli scenari possibili è questo: negli «stati generali della cultura» organizzati dal Pd viene invitata una giornalista. Di cosa dovrebbe parlare nessuno sa e, ad ascoltarla, appare chiaro che non lo sa nemmeno lei. Si potrebbe pensare che si stia arrampicando su uno specchio se nello specchio non si fosse perduta. L’eloquio è buono ma la mancanza di intima convinzione, che va a suo credito, indebolisce la sua forza oratoria per cui resta incerta. Il suo discorso non è provocatorio come erroneamente si potrebbe sospettare: fa piuttosto di lei un’incarnazione inconsapevole della dimensione amletica dell’esistenza. «Essere o non essere» avrebbe potuto essere il titolo dell’intervento di questa donna, non priva di intelligenza e di cultura, che cerca di affrontare il problema del nostro rapporto con la realtà a prescindere dalla realtà interna.

L’emblematica giornalista «à la page» dei nostri tempi attacca gli intellettuali italiani rappresentandoli nel loro insieme con la figura del «dolente erudito» (un personaggio del film «La terrazza» di Ettore Scola interpretato da Vittorio Gassman): presi nella loro percezione elitaria della realtà, e nello sconforto per la costante smentita delle loro colte interpretazioni, pretendono che «i fatti siano ignorati dalle opinioni». Allergici a eventi televisivi come i «tronisti» e «l’isola dei famosi» sono rosi dall’invidia nei confronti di Fabio Volo che vende milioni di coppie mentre loro vendono solo ai loro amici.

Più che una concezione degli intellettuali questa è una concezione della realtà che cede troppo a esigenze di verosimiglianza. In questo modo smarrendo la verità manca di un centro di gravità e gira a vuoto. La realtà se separata dalla verità perde il suo significato che non può essere costruito in termini di quantità e misurato con gli indici di popolarità.

Perché nulla si propaga con più rapidità del fatto reale che colpisce l’immaginario collettivo in superficie.

Ciò che chiamiamo “realtà” è l’incontro tra il dato oggettivo nella sua casualità -il fatto- e la nostra interpretazione soggettiva – l’opinione- che gli dà senso. La realtà non esiste se questo incontro non è «vero» e ciò non risiede in una corrispondenza certa e univoca tra l’opinione e il fatto ma nella profondità dell’effetto reciprocamente trasformativo che l’incontro ha determinato. Lo sguardo critico sulla realtà (che sarebbe riduttivo chiamare «intellettuale») interroga la trasformazione contemporanea del mondo esterno e della nostra soggettività, andando oltre la (auto)compiacenza che sottostà alla stagnazione contemplatrice dell’esperienza.

Esaltare il puro accadimento dei fatti, aderendo acriticamente ai fenomeni e alle tendenze di massa, senza chiedersi se promuovono un cambiamento di prospettiva (come a volte succede) o se lo impediscono (come succede più spesso), significa nuotare in acque basse e non ha senso prendersela se qualcuno fa notare che per bagnare i piedi è inutile sbracciarsi. Dietro i discorsi che presentano i fatti come opinioni si nasconde una fragilità narcisistica: la paura di sbilanciarsi nell’incontro con ciò che è eccentrico alla propria identità, preferendo chiudersi in una percezione indifferenziante della prossimità, in un senso di appartenenza omologante.