Nel luglio 1921 il comune ligure di Sarzana divenne teatro e rappresentazione della storia d’Italia tanto per ciò che di lì a poco sarebbe stato (l’avvento del fascismo) quanto per quello che sarebbe potuto essere (la difesa comune contro l’incedere della dittatura).

IN QUELLA TERRA che interseca Liguria, Emilia-Romagna e Toscana si consumarono «i fatti di Sarzana» che, l’anno prima della «marcia su Roma», manifestarono il conflitto irriducibile tra le anime politico-sociali e militari del movimento fascista e quelle dell’arditismo antifascista come risposta popolare alle violenze squadriste che dilagavano nel Paese. Nella zona le camice nere operarono feroci aggressioni contro comizi e sedi socialiste culminate con l’uccisione dell’operaio Luigi Gastardelli il 12 giugno 1921 e con gli assassinii del ferroviere Dino Rossi, del pescatore Rinaldo Spadaccini e dell’operaio Rino Garfagnini il 17 luglio.

Dopo l’arresto di alcuni fascisti responsabili delle violenze, centinaia di squadristi provenienti dalle province limitrofe organizzarono l’assalto a Sarzana per ottenere la scarcerazione del fondatore del fascio di Carrara, Renato Ricci, detenuto presso la Fortezza Firmafede.

IL 21 LUGLIO la popolazione si mobilitò attorno agli Arditi del Popolo, che nei giorni precedenti avevano già respinto le incursioni squadriste. Contro i fascisti si schierarono anche i carabinieri comandati dal capitano Guido Jurgens che ordinò di aprire il fuoco e di disperdere le camice nere. Gli squadristi vennero sconfitti dalla resistenza unita degli Arditi del Popolo, della comunità contadina e operaia e dei militari leali, riportando un bilancio di 16 morti e decine di feriti.

A CENTO ANNI dai «fatti di Sarzana» alla Fortezza Firmafede (Sala delle Capriate, inizio alle ore 10, ndr) un convegno patrocinato dal Comune ed organizzato dall’Anppia e dagli Archivi della Resistenza proporrà, oggi e domani, un programma ricco di interventi di storici e studiosi con il fine di ripercorrere quelle vicende connettendole tanto agli sviluppi del Paese di allora quanto ai significati del nostro presente.

I «fatti di Sarzana» si collocarono in quel limbo della storia dell’Italia che fu lo spazio temporale compreso tra la fine del «biennio rosso» e la conquista del potere da parte fascista nell’ottobre 1922. Un punto di osservazione centrale su ciò che rappresentarono: l’avvento del regime dopo gli sconvolgimenti «totali» della Grande Guerra; la (colpevole) mancata risposta delle istituzioni monarchiche rispetto alla minaccia alle libertà fondamentali; la reazione delle classi proprietarie di fronte ai processi di emancipazione operaia e contadina; l’emersione degli Arditi del Popolo come forma storica di autodifesa dei ceti subalterni di fronte al paramilitarismo fascista sostenuto da agrari, industriali, piccola e media borghesia contadina ed urbana.

Leggere il senso della vicenda di Sarzana aiuta a cogliere le possibilità sempre presenti (per quanto ridotte) di intervento «soggettivo» sugli indirizzi e sui contesti della storia anche quando paiono immutabili e «oggettivi». Un processo che assume corpo con l’impegno e la partecipazione diretta alla vita politica come segno e significato della cittadinanza. «Se tutte le città d’Italia – disse il Presidente della Repubblica Sandro Pertini – avessero fatto come Sarzana, il fascismo non sarebbe passato». Nello stesso tempo quei fatti chiamano in causa il ruolo delle istituzioni evidenziando ciò che accadde con l’intervento degli uomini di Jurgens e che invece, per volontà della monarchia, non fu poi ripetuto nel resto del Paese lasciato alla mercé della delinquenza fascista.

QUEL LUGLIO 1921 dipinge anche le ragioni profonde della crisi interna allo Stato negli anni del primo dopoguerra nonché il controverso rapporto delle classi dirigenti nazionali con la democrazia, all’epoca risolto con l’affidamento della direzione del Paese alla dittatura per il tramite di uomini come il sarzanese Carlo Alberto Biggini, commissario prefettizio della città, ministro dell’Educazione e membro del Gran Consiglio del fascismo; oppure come Amerigo Dumini e Tullio Tamburini il primo responsabile dell’assassinio di Giacomo Matteotti, il secondo console della Milizia e Capo del Corpo di Polizia della repubblica sociale di Salò. Entrambi alla guida delle squadracce durante i fatti di Sarzana.

UNA QUESTIONE non risolta, quella della difesa delle istituzioni dal fascismo, che riemergerà drammaticamente negli anni della Repubblica quando lo stragismo nero (da piazza Fontana a Brescia; dall’Italicus alla stazione di Bologna) si giovò del sostegno di apparati di forza e servizi segreti «abitati» da uomini provenienti dal regime.

Questa vicenda, infine, ci parla del populismo storico di oggi con l’intitolazione a Massa, nel 2019, di una targa in marmo al fascista Ubaldo Bellugi, ex podestà della città e presente all’assalto del 21 luglio a Sarzana. Un cerchio che si chiude e che pure, in ragione della cultura della Resistenza che innerva la nostra Costituzione, va spezzato.