Il fatto che il giudice emiliano che giorni fa ha applicato misure cautelari diverse dal carcere a un giovane pakistano incensurato, confesso di un atto di violenza sessuale su di un minore invalido, sia stato sottoposto a un pubblico linciaggio, rende necessario riflettere sul tramonto della cultura delle regole e sulla pericolosa deriva darwiniana che sta investendo, nel nostro Paese, il diritto, il processo e l’intero mondo della giustizia. L’idea che cioè vince il più forte o, meglio, chi grida più forte.

Senza entrare nel merito della vicenda, occorre infatti ricordare che quelle norme che rendono più rigorosa la valutazione delle esigenze cautelari e fanno della custodia in carcere una extrema ratio, sono state introdotte dal Parlamento poco più di due anni fa. Il giudice, nell’applicare quelle regole, ha evidentemente ritenuto che, in considerazione di tutti i parametri solitamente utilizzati in questi casi (l’incensuratezza, l’età, la condotta successiva al reato, la confessione …), le tre diverse misure cautelari applicate fossero sufficienti a operare uno stringente controllo sull’indagato e a scongiurare ogni pericolo per la collettività e per la vittima del reato.

Sul punto un Tribunale della libertà, investito dal pm dissenziente della questione, dirà se questa valutazione sia stata compiuta in maniera corretta.

Si potrebbe, dunque, ricondurre questa vicenda giudiziaria alle ordinarie e fisiologiche cadenze del processo penale, se non fosse che attorno al caso si sia scatenata l’ostilità di una intera collettività, e non si fosse creata una adesione trasversale di tutte le forze politiche, di destra e di sinistra, con conseguente coro di minacce, di insulti, di richieste di interventi da parte del Csm e del Ministro. Giustamente si è ricordato il valore della indipendenza e dell’autonomia della magistratura.

Se fosse, infatti, così semplice determinare le condizioni per un trasferimento per «incompatibilità ambientale», da qualcuno subito evocato, quell’idea darwiniana finirebbe per fagocitare anche l’organizzazione della giustizia, e con il selezionare in questo modo solo giudici graditi a questa o a quella Procura e a ondivaghi movimenti d’opinione, perché privi di quell’indispensabile requisito della terzietà che dovrebbe costituirne invece la fonte di legittimazione costituzionale.

Non vi è dubbio che esistano nel Paese tensioni particolari e che quello della sicurezza è un problema che non può essere sottovalutato e che, infine, la circostanza che il giovane indagato fosse un richiedente asilo ha contribuito alla esposizione mediatica del caso. Occorre tuttavia evitare che il processo divenga ostaggio di questi conflitti, sottraendolo a pericolose generalizzazioni.
Utilizzare queste delicate vicende come facile veicolo di consenso politico significa favorire una pericolosa delegittimazione dei giudici e della giustizia, far regredire lo strumento processuale da equilibrato dispositivo di garanzia a improprio collettore di pulsioni collettive, di risentimenti e di ostilità.

Ricordare invece all’opinione pubblica che l’85% degli autori di questi reati sono stati a loro volta vittime di abusi, e come tali comunque degni di rispetto e di tutela come ogni altra vittima di reato, e che oltre il 70 % dei delitti di pedofilia vengono compiuti in ambito familiare, potrebbe essere utile a impostare la discussione in termini più consapevoli e più maturi.

Così come potrebbe essere utile ricordare che il giudice deve inevitabilmente operare le sue scelte discrezionali applicando le norme al singolo caso concreto e che, in caso di errore, il processo possiede comunque al suo interno meccanismi di controllo. Così fornendo strumenti razionali e non emotivi di lettura della complessa realtà dei fenomeni criminosi e del processo che se ne occupa, e magari offrendo anche qualche strumento di rassicurazione a una opinione pubblica spesso più frastornata che forcaiola.

* segretario dell’Unione camere penali