Hanno frustato gli adulteri ma nessuno ha avuto da obiettare. Hanno chiuso i bar e (quasi) nessuno ha detto niente. Poi hanno vietato la musica e apriti cielo. «È come se ti impedissero di vedere la donna che ami», dice Aliou Touré, il leader dei Songhoy Blues, sempre a disagio nel cercare le parole giuste per descrivere la scena, il momento in cui i jihadisti che avevano preso Timbuctu osarono l’impensabile, mettendo al rogo gli strumenti musicali e imponendo alle radio un palinsesto di soli versetti coranici.

I Songhoy Blues sono la nuova sensazione forte emersa da un paese, il Mali, da sempre prodigo di fibrillazioni sonore scintillanti, oblique, antiche eppure global friendly, anti-oscurantiste e anche sexy. Sono in quattro, giovanissimi, e pur non avendo problemi con l’ortodossia della tradizione sconfinano volentieri nel rock, inteso forse come forma minore di songhoy blues.

«Songhoy», ovvero Songhai – come l’impero fiorito nel Sahel tra XVI e XVII secolo, una lingua e una cultura intimamente legate alla storia di Timbuctu – e poi «Blues» che invece si capisce da sé. Il precipitato sonoro della diaspora in Mali si riannoda magicamente a una parte nobile e più che plausibile delle sue origini. Lo aveva capito per primo Ali Farka Touré, maestro nel valorizzare i confini tra gli stili e le identità regionali del Nord Mali. La diversità come ricchezza sinergica, per una musica cantata in songhai, peul, tamashek, bambara, aderente al contesto tanto quanto ai pentatonalismi del blues, capace quindi di toccare corde remote e di farsi capire anche altrove.

Rispetto a un altro maestro come Boubacar Traoré, che già alla fine degli anni sessanta suonava autentico rock’n’roll maliano, quasi un riflesso sonoro del fantastico set fotografico allestito a Bamako da Malick Sidibe, nei Songhoi Blues pulsa un’energia sbarazzina e inconciliata. Ma il valore aggiunto sono le stigmate dell’artista fuggito in reazione alla bestemmia di chi voleva impedirgli di suonare.

Un paio di generazioni dopo, musicisti come quelli che compongono i Songhoy Blues oltre che per la loro incolumità hanno temuto sinceramente che quella di farsi capire altrove fosse l’unica chance che gli restava. Lasciato il profondo nord scosso dalla guerra sono entrati nel giro di Africa Express, progetto orchestrato dalla popstar britannica Damon Albarn, che alla Maison des Jeunes di Bamako somma giovani talenti locali e mostri sacri della musica mondiale come Terry Riley e Brian Eno. Passione che risale a tempi non sospetti, quella dell’ex Blur per la musica maliana, che in uno scenario di guerra però diventa impeto solidale e politicamente complice. Nel team c’è anche il chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs, Nick Zinner, che produce l’esordio dei Songhoy Blues, Music in Exile.

Musica in esilio come quella dei Tinariwen, per restare dentro le frontiere maliane, ma dall’altro lato del “fronte”. In questo caso desert blues dolente e potente al servizio dell’indipendentismo tuareg. Profughi di lusso, forse, approdati negli Usa su invito, anche qui, di rocker fulminati dall’incendiaria essenzialità delle loro chitarre elettriche. E reinseriti in ambiente desertico per mantenere calda e asciutta l’ispirazione. Sono rimasti i soli a sostenere che una pace imposta con la forza, come quella proclamata nel Nord Mali dall’intervento francese, è destinata a non durare.