Oggi il Mistral si è fermato dopo avere spazzato strade, vicoli, mare e cielo con furia per due giorni. È iniziato il week end, è estate, le terrazze dei bar sono piene, i ragazzi si tuffano spudorati dalle rocce della Corniche. Turisti, vacanzieri, famiglie, amanti delle gite in barca. L’odore di lavanda si mescola a quello delle patatina fritte, del pesce e del pastis. Marsiglia, Provenza, Nizza è neppure a cento chilometri da qui, eppure già all’indomani del massacro del 14 luglio sembrava che un po’ tutti avessero messo da parte i titoli cubitali dei giornali, i salotti televisivi da cui rimbalzavano a ciclo continuo dalla notte prima commentatori, politici, il presidente Hollande, le immagini di sangue del lungomare ferito di Nizza.

Niente qui sembra turbato, nessun commento in strada – o forse così piano che si fatica a sentirli – tutto «normale», i militari in strada, la polizia, i ragazzini che sparano i «botti» tardivi della festa nazionale, i controlli all’entrata del Mucem, il Museo del Mediterraneo e della Villa Mediterranée sedi del Fid, il Festival del documentario. La sera però, parlando con qualcuno di quanto è accaduto, la logica, lo stupore, ripetere che «nemmeno me ne ero accorto» all’improvviso lascia il posto alle lacrime. Tecniche di sopravvivenza? Ovvero come resistere a questo? Da una parte la vita di ogni giorno, dall’altra l’inferno delle news, in mezzo un dolore spaventato che si fa fatica a esprimere.

E di fronte ai filmati del massacro che circolano in rete, Nizza come altri, la notte il «golpe» turco, appare molto evidente che la sfida oggi per chi lavora con le immagini in relazione alla realtà è molto complicata. In che modo si può raccontare il presente cercandone dei possibili significati che non si limitano alla superficie sfruttata e molto spesso manipolata della realtà? Il Fid, nonostante la definizione di Festival del documentario, ha da sempre spostato la sua attenzione sulla ricerca di quei cineasti – anche imperfetta, anche parzialissima – che provano a spostare lo sguardo altrove. Che della realtà cioè indagano gli aspetti meno evidenti, le cause più degli effetti, gli interrogativi prima della commozione.

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Si può raccontare la Storia nello spazio di un teatro, in passi di danza e nella figura di un fantasma bambina come fa Bertrand Bonello in Sarah Winchester, opéra fantome, finora il più bel film del concorso internazionale. Un regista, che è anche compositore – è Reda Kateb ma le musiche sono dello stesso Bonello – una danzatrice, la sublime Marie-Agnès Giliot, provano in una sala dell’Opéra i passaggi di un’opera destinata a non essere rappresentata. La protagonista della storia e Sarah Winchester, una giovane americana «con gradi occhi malinconici» che aveva sposato l’erede dell’industria di armi. Sono giovani, sono felici, Il nuovo modello di carabina a ripetizione progettato dagli armatori Winchester promuove intanto la guerra su vasta scala, mentre il mondo si spara addosso, Sarah sta per avere un bambino ma la piccola nascerà per morire poco dopo devastata da una malattia genetica. Sarah vacilla, sembra rimettersi finché l’amato marito muore poco dopo di tubercolosi. La donna impazzisce, cerca risposte dai medium, e per sfuggire alla sua «colpa» inizia a costruire una casa enorme, sempre più grande, infinita, le cui porte danno sul vuoto, e le finestre non hanno paesaggio. Vi si richiude scegliendo per sé la camera di una bambina.

Nel film, che nasce su invito dell’Opéra di Parigi, Bonello alla storia di Sarah Winchester intreccia la leggenda del fantasma dell’Opera di Gaston Leroux, quasi a sottolineare l’aspetto di «opera fantasma» dichiarato son dal titolo. Spiega: «Visto che l’Opera di Parigi mi ha dato carta bianca per una terza scena, ho pensato subito di utilizzare le prime due, Garnier e Bastille, per crearne una terza che avesse una dimensione più virtuale. Mi piaceva anche la possibilità di unire le diverse arti che compongono la scena operistica, musica, danza, canto, non ho mai pensato di lavorarci separatamente. A quel punto dovevo scegliere l’opera, il libretto, e vista la durata breve prevista per il film, non poteva essere altro che, appunto, un’opera fantasma. Così sono arrivato a Sarah Winchester, di cui avevo scoperto la storia una decina di anni fa. Avevo pensato di farci un film, avevo scritto anche un trattamento e lì avevo capito che per girare una storia così si deve essere americani. Con un’opera è diverso, l’idea dei fantasmi era possibile attraverso il canto, e a dire il vero non ho pensato subito a Leroux, diciamo che si è invitato da sé».

Bonello cerca Sarah nei passi della danzatrice, nel respiro del ritmo, nello sguardo complice che li unisce. Lei si muove, accenna un passo, poi trattiene i gesti: «Danza con la testa» le dice lui. Una figurina bianca, sporca di sangue all’improvviso attraversa il retropalco e fissa la donna in silenzio …
Il mito, la frontiera, il west, l’orizzonte delle guerre e dei fucili si sposta nella regia di Bonello negli spazi del teatro che appaiono quasi come un territorio in cui tutto è possibile, vastità e leggenda, speculari alla follia della donna che prova a sfuggire alla Storia americana e ai suoi delitti chiudendosi nella casa gigantesca, opera fantasma anch’essa nella sua infinitezza, che assorbirà la sua intera esistenza separandola per sempre dal mondo. Morta anche lei, fantasma tra i fantasmi le cui voci a migliaia rimbombano nella sua testa.
La verità dell’opera – e della Storia – si nasconde, affiora a poco a poco, nei frammenti delle prove, nell’esitazione che attraversa il regista, e con lui la sua interprete, nei dubbi sulla messinscena che divengono domande nette sul suo gesto artistico. La macchina da presa unisce le arti, e intanto si muove nel segreto invisibile – impossibile non pensare a De Palma tra i registi amati da Bonello – di quello spazio, nel mistero che lo abita così vicino a quello di Sarah e della sua assurda ossessione. In poco meno di mezz’ora Bonello realizza un oggetto cinematografico sontuoso e ricchissimo, che sperimenta le potenzialità dell’astrazione, della messinscena e della sua verità, dello spazio e del tempo, del cinema dunque, della sua poesia e della forza del suo pensiero.

Sapevate che anche gli alberi si seccano se soffrono un trauma o un profondo dolore? Quell’uomo aveva centinaia di alberi di pesche e di mele, le pesche precoci e le mele «Hana», poi era arrivata la guerra che li aveva costretti a scappare. Al ritorno, anni dopo, le piante erano tutte morte. «Un trauma profondo» le ha uccise tutte e 1500, ridotte a rami secchi che ora brucia in silenzio. Ne ha piantate nuove perché si deve ricominciare da qualche parte. Atlal – nel concorso francese – è firmato da un giovane regista algerino, Djamel Kerkar, è un’opera prima importante per il suo soggetto, la guerra civile degli anni Novanta, ma soprattutto per il modo con cui il regista sceglie «cinematograficamente» di affrontarlo. Non una ricognizione della Storia ma la ricerca delle sue zone oscure, di una memoria che vacilla e che fatica a essere condivisa, che forse si preferisce seppellire e non opporre ai vuoti della storia.

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Atlal conferma anche la vitalità delle nuove generazioni algerine di filmmaker, come ha dimostrato lo scorso anno il bel Dans ma tete un rond point di abba – che ha collaborato anche in questo film – vincitore del Fid e del Tff Doc. La prima immagine è un vecchio Vhs consumato dal tempo, si vedono case bruciate, le mura forate dalle pallottole, si sentono le armi e il vento che il suono mal mixato rende quasi uguali. Siamo a Ouled Allal, una delle zone più colpite dagli scontri, la chiamavano un «piccolo paradiso» per la ricchezza della terra e dei suoi frutti, ma lì per la sua posizione strategica tra le montagne e la capitale Algeri, i gruppi islamici avevano deciso di installare il loro quartiere generale. Gli abitanti si sono così trovati tra le loro violenze e gli attacchi dell’esercito, esodo, morte, stupri, uccisioni, qualcuno ha preso le armi e ha combattuto da «patriota» per il Paese.
Tra quelle erbe secche oggi qualcosa comincia di nuovo a muoversi, Accanto agli scheletri delle abitazioni di prima appaiono nuove mura, cantieri, qualche contadino è tornato a coltivare i campi lasciando, l’erba sembra più vivida, nuova.

Un uomo, anziano, zoppicante, racconta che lui ha preso il fucile contro l’arroganza omicida dei «barbuti», ragazzini che pensavano di potersi permettere tutto. Ora è tornato ai campi ed è fiero di avere combattuto perché l’Algeria è la sua terra, l’hanno presa dai colonizzatori e l’hanno liberata, e lui la difenderà sempre.

A poco a poco le parole ricordano, dicono di una ragazzina rapita e sgozzata, del terrore e dell’impotenza. E adesso? I ragazzi davanti al fuoco cantano canzoni di rabbia, disperazione, slam poetry in cui il pianto di mescola al fumo dell’hashish. Che fare? Come si fa a rimanere lì? Come si fa a fuggire dalla frustrazione di quei luoghi in cui molto, troppo dolore è stato cancellato dall’opportunismo della rimozione? Ma scrivere questa Storia è faticoso e pieno di rischi. Kerkar indaga, fa fluire il dubbio, rispettoso dell’incertezza che scivola nella paura. Anche qui sono frammenti, materiali di un futuro possibile, di risposte che le sue immagini non danno ma vogliono cercare.