La prima sorpresa, entrando nella sala dell’istituto Magnolfi immortalato dalle Baccanti di Luca Ronconi e Marisa Fabbri, è di assistere forse per la prima volta a uno spettacolo di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni dentro uno spazio tradizionale. Fino a poco tempo fa, per vedere «in scena» le opere del loro Archivio Zeta, bisognava inoltrarsi sull’appennino tosco-romagnolo, al Cimitero germanico della Futa, o nei cantieri dismessi dell’alta velocità ferroviaria sopra il Mugello. Più recentemente, per un episodio del Pilade pasoliniano, le loro parole e le loro visioni erano inondate dalla polvere bianca delle saline di Volterra (e la scena del Campo dei rivoluzionari si animava con gli operai vittime reali della serrata di una avanzatissima fabbrica dei dintorni).

Ma anche stavolta la società non latita, attorno alle parole di una commedia di Aristofane, quel Ploutos che diventa al Magnolfi (fino a domenica 21 maggio, produzione Metastasio) Plutocrazia. Anzi quel testo ateniese, tradotto in maniera adeguata e senza pregiudizi o moralismi linguistici, assume una concretezza e un acume da sciogliere quelle piccole riserve di ambiguità che la figura di Aristotele si porta dietro per ognuno dai tempi del liceo. Quello che parve quasi «reazionario» nei suoi pensieri, impersona oggi davvero la speranza delusa di una democrazia da praticare e vivere fino in fondo. Ma anche in quella Atene la ricchezza e le alleanze di potere non dovevano essersi rivelati tanto teneri.

Pluto (nel cui mantellone si muove la Sangiovanni) è cieco, come la ricchezza appunto e la sua divinità, che è bene non veda a chi attribuire il privilegio della propria dotazione. Cercano di traviarlo, il dio potente, un padre e un figlio di strette vedute e smodati egoismi, crudeli e divertenti nella loro incontenibile avidità (a fianco a Guidotti, c’è Ciro Masella). In quelle aeree linee di legno che disegnano l’orizzonte (entrando coi loro rumori anche nella partitura sonora di Patrizio Barontini), Pluto può anche scoprire l’altra faccia della sua dotazione divina, quella della povertà, reciproca della ricchezza. E qui le parole dello spettacolo si fanno più stringenti, su intensità e sfruttamento del lavoro, mentre le macchine da cucire svelano l’economia cinese sotterranea di Prato e la vocazione tessile della città.

Da render quasi naturale l’apparire dello spettro marxiano che Masella impersona con gusto, almanaccando di oggetti e persone da vendere e comprare. E a supporto di Aristofane arrivano con naturalezza citazioni di Marx come di Chomski. E il pensiero che corre offre strumenti inusuali per chi da quella sarabanda (di cappotti e soprabiti volanti, rigorosamente stracciaioli) voglia riflettere e trarre conoscenza.