A Gabriele Muccino il cinema piace e molto. L’evidente ostinazione con la quale viviseziona i rapporti familiari è indice di un grumo di ossessioni che funziona come un’instancabile macchina celibe. Messi da parte i trentenni benestanti romani, Muccino, con il suo passaggio negli Stati uniti, si è rivelato un vero professionista da studio. Nonostante l’insuccesso del terzo film, e la difficoltà di individuare un interprete del valore di Will Smith, protagonista dei suoi primi due lavori americani, conferma una dimensione di confezionatore di storie generaliste sulle quali si abbatte regolarmente l’ironia dei recensori di turno.

Nella vicenda di una figlia che continua da adulta a cercare il padre scrittore nei vuoti della sua esistenza quotidiana, contrappuntata da un lungo flashback che rievoca la genesi del romanzo più famoso del genitore, Muccino tenta un racconto sentimentale autunnale che è anche romanzo di formazione ed esorcismo familiare. La New York del suo film sembra un’emanazione in minore della città tutta ocra e filtri del tardo Woody Allen. Il nutrito cast composto da star di prima grandezza e caratteristi di grandi rilievo con presenze d’eccezione come Jane Fonda, è la tela sulla quale Muccino compone il suo film.

Certo, la sceneggiatura e i colpi di scena telefonati sono gli elementi deboli di questo ambizioso melodramma sentimentale. La sicurezza, però, con la quale il regista dirige il suo film, il piacere evidente dei movimenti di macchina, sono il segno di una voglia di cinema che sceglie purtroppo di chiudersi nell’alveo del «film girato bene» come a volere tutelare a tutti i costi la sua natura di operazione produttiva. In questo senso Padri e figlie è il film che meglio esemplifica le ambizioni e i limiti del cinema mucciniano. La sicurezza formale con la quale il regista mette in scena il film è anche il segno di un limite che assurge a forma e pensiero di una pratica.

Muccino, nel suo andare avanti e indietro nel passato del suo protagonista scrittore, contrappuntandogli prima gli exploit sessuali della figlia psicologa infantile e successivamente un Edipo a distanza, tenta di mettere piede anche in aree meno frequentate dal suo cinema. Come in una seduta di analisi, i momenti di imbarazzante sincerità di Padri e figlie (per esempio la confessione di Diane Kruger) bucano la prevedibilità dello sviluppo drammatico. Pur confermandosi cinema del già visto, il film, nella sua ambizione di reinventare in chiave autoriale le dinamiche da soap opera, si rivela oggetto attraversato da pulsioni e hybris. Come se dietro la celebrazione della famiglia covasse in realtà il fantasma della distruzione della famiglia stessa.

Ed è questa hybris che resta costretta fra le forme di un film elegante ma convenzionale, che forse si rifiuta o è incapace di dare corpo ai suoi fantasmi negati, a far sì che il film si offra in controluce come immagine negativa dell’ideologia e dello sguardo che lo hanno posto in essere. Le piccole cose di cattivo gusto, ossia il volontario esilio separazionista del Muccino cineasta romano chiuso nel suo mondo, riemergono nella visione insulare di un’intellighenzia americana quasi aristocratica, vista come sotto vetro. Come dire che le ambizioni di Muccino cineasta si scontrano con il vizio di forma di un classismo così forte in grado persino di dare corpo e forma al suo tentativo di allontanarsene.

Padri e figlie offre quindi lo spettacolo di un film che tenta di sottrarsi all’educazione di classe che l’ha posto in essere ma che a essa ritorna sempre attraverso il fantasma coltivato da Gabriele Muccino del cinema «fatto bene».