Lo sguardo un po’ spento ma sempre volitivo di Genny Savastano che chiude l’ultima puntata della quarta serie di Gomorra quando viene accompagnato nel bunker di protezione dopo che ha freddato Patrizia, è quello dell’eroe che sta facendo omericamente il suo percorso.

Che non è terminato perché è già annunciata la quinta e molto probabilmente ultima serie. Ed è anche il segno di chi è rimasto solo come personaggio e come attore: sono stati eliminati via via le tre deuteragoniste Maria Pia Calzone, Cristina Donadio e ora Cristiana Dell’Anna e il coprotagonista Marco D’Amore. Si perché la serie di Sky che ha spezzato la tradizionale, piatta, scolastica serialità televisiva italiana per traghettarla nei territori della grande serialità americana, al di là delle esigenze del plot, dei colpi di scena, delle fisiologiche agnizioni si può permettere di eliminare personaggi-chiave, con la consapevolezza della forza del format, della forma, dello stile e del linguaggio senza essere “ostaggio” dell’imprescindibilità del protagonista la cui scomparsa anche solo per una puntata metterebbe in crisi le serie delle reti concorrenti.

La conferma di una strategia vincente è proprio la sparizione volutamente ambigua di Ciro Di Marzio alias Marco D’Amore detto l’Immortale, che non ha minimamente danneggiato il consenso e l’entusiasmo per l’epica vicenda ispirata da Roberto Saviano. L’eliminazione del personaggio è stata tanto più coraggiosa se si pensa al suo ruolo fondamentale visto che è lui a innescare la saga e a creare in quale modo il personaggio di Genny. E quella Ciro-Genny veniva quasi enunciata come una coppia strutturale che avrebbe accompagnato fino alla fine l’epica vicenda e invece è stata separata prematuramente per soddisfare una logica narrativa spietata piuttosto che inseguire le aspettative del pubblico. Ma lo stato maggiore della produzione Sky Atlantic, Cattleya, Fandango naturalmente non è insensibile al tam-tam dei tanti fans che non hanno gradito la scomparsa di Ciro/Marco e ha pensato di imbastire un film intitolato manco a dirlo L’Immortale, uno spin-off della serie ma anche un prequel prodotto da Cattleya e interpretato naturalmente da Marco D’Amore che è anche il regista.

Il film le cui riprese sono iniziate il 17 maggio a Roma per proseguire a Napoli e a Riga, in Lettonia (uscirà a Natale), racconta la storia di Ciro dalla sua nascita nel 1981 e renderà meno pesante la crisi di astinenza tra la quarta e la quinta stagione. Per Marco D’Amore comunque non è un’esperienza nuova visto che ha già diretto gli episodi 5 e 6 dell’ultima serie di Gomorra in linea con la scelta in stile americano di utilizzare più registi per le varie puntate. Perché in questo caso è l’ensemble che funziona, è la macchina produttiva/narrativa/spettacolare che può permettersi l’intercambiabilità dei registi. Comunque la serie è stata pensata per trascendere i confini regionali e la rappresentazione autoreferenziale, per andare oltre l’importante omonimo libro di Roberto Saviano e l’ottimo film di Garrone.

E per raccontare l’epopea di camorristi e spacciatori di droga, che agiscono nella periferia di Napoli nel contesto di organizzazioni criminali di stampo mafioso, con ramificazioni nel mondo degli affari e della politica, ha scelto la descrizione di crudo realismo del complesso miscuglio di comportamenti brutali e avidi, tragedia familiare, melodramma sentimentale, in un arco di cinque anni e quattro serie per complessivi 48 episodi della durata di poco più di 40’ ciascuno. E la carta narrativa vincente è il dosaggio tra “pubblico” e “privato” delle dinastie criminali dei Savastano, i Confederati, i Capaccio, i Levante impegnati in una sanguinosa guerra senza fine per il controllo del mercato della droga, delle estorsioni, degli appalti dei Quartieri Spagnoli, Forcella, Secondigliano, iconizzate attraverso figure scolpite come don Pietro, Ciro, Genny, Scianel, donna Imma, Patrizia, Malammore, Sangueblù,’oVucabulà, don Gerlando, Mickey.

Tra scissioni, alleanze vecchie e nuove, passaggi repentini da un clan all’altro, eliminazioni altrettanto repentine, a volte imprevedibili e spiazzanti, tradimenti, vendette, imboscate, la serie scivola con incontinente forza espressiva e incisività stilistica verso la quarta serie che cambiando attese e prospettive, sposta il fulcro narrativo intorno a Patrizia (una bravissima Cristiana Dell’Anna), la capocommessa in un negozio di moda diventata in breve tempo capo di Secondigliano – dopo che Genny se ne andrà – che sposerà Michelangelo Levante, accetterà di collaborare con la giustizia per vendicarsi dei Levante e finirà uccisa da Genny.

Forte di un team tecnico e di una squadra di sceneggiatori giovani, che approcciano la materia con l’occhio e la penna da veterani, Gomorra vola sulla capacità – propria della serialità americana – di lavorare al tempo stesso sulla credibilità, la verosimiglianza, la drammatizzazione spettacolare invocata dalla fiction. Ma ha aperto anche un nuovo fronte nell’ambito del contrasto tra la percezione immediata e la capacità di andare oltre, tra il visibile/il riconoscibile/l’identificabile e il saper guardare tra le pieghe stilistiche/linguistiche/formali/espressive, tra chi assume la koinè dialettale dei camorristi solo nell’accezione volgare, eccessiva e identificativa/enunciativa e chi non la considera un ostacolo per andare oltre la lingua. Non è un caso che in termini di ricezione la serie non conosce mezze misure: o è odiata e snobbata o è amata incondizionatamente con fisiologiche amplificazioni sui social.

Gli argomenti più ricorrenti dei detrattori sono la ricaduta diseducativa e il fatto che queste forme del Male (vecchie e nuove) fanno audience. Per quanto riguarda il problema dell’emulazione/imitazione, sarebbe abbastanza facile aggrapparsi alla teoria estetica lukácsiana del rispecchiamento visto che alcuni look, gestualità, atteggiamenti aggressivi, modalità violente della criminalità organizzata esistono nella realtà già molto prima della serie, ma significherebbe snaturare il diritto mitopoietico della fiction di esasperare situazioni, trasfigurare eroi, spettacolarizzare la guerra criminale senza per questo autorizzare riserve etiche.

Qua stiamo parlando di arte, di un’unica grande ipertrofica narrazione che ha metabolizzato citazioni magari non tutte volontarie, esibisce le tracce di un cinema “alto”, allude ai padrini delle grandi saghe mafiose, ritaglia una dimensione verghiana di don Gerlando, dà alle sparatorie tra bande, alle uccisioni a freddo con colpi di pistola, alle raffiche di mitragliette, alle esibizioni di sangue e ferite la leggerezza iperbolica di Tarantino, racconta contrasti e passioni con realismo scorsesiano, immerge gli scontri verbali e gli irruenti faccia a faccia tra i protagonisti in una dimensione shakespeariana. Il tutto sorretto da soluzioni tecnico-stilistiche che alternano con montaggio secco e ritmato campi lunghi, inquadrature raffinate, sequenze concitate, dalle tonalità livide e i tagli di luce di una strepitosa fotografia, dalla colonna sonora originale dei Mokadelic impregnata di sonorità dense di melodiche distorsioni e implacabili crescendo.

Fino alla sigla finale della serie, il brano Nuje vulimme ‘na speranza del rapper napoletano Lucariello. Insomma ci troviamo difronte a un’operazione che ha trasformato la realtà in meta/iperrealismo, la tragica cronaca in un’esperienza visionaria, la lingua-dialetto in una modalità espressiva che cementa corpi e gesti, i personaggi di primo e secondo piano della vera camorra in figure fantasmatiche di un’epopea che non conosce confini. E a proposito di fantasmi risuonano opportune le riflessioni di Jacques Derrida che parlando dei “fantasmi” del cinema, sostiene che quando si parla dell’immagine e della sua dimensione spettrale non si può prescindere dalla tecnica e dalla credenza, intesa come fede e senso religioso e fiduciario, del credito che si accorda all’immagine anche in un film di finzione e al fantasma che è uno spettro.