Un boato silenzioso, un ossimoro pericoloso per i fragili nervi del Pd alla vigilia del voto per il nuovo capo dello stato. Ieri a Montecitorio Stefano Fassina, ex viceministro del governo Letta e oggi dirigente in direzione ostinata e contraria a quella di Renzi, a chi gli chiedeva del voto sul Colle insinuando il dubbio che i prossimi franchi tiratori saranno quelli della minoranza Pd, risponde seccamente: «A differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie. Nessuno deve temere da noi i franchi tiratori». Intende dire che Renzi ha guidato i 101 che bocciarono Prodi al Colle? «Non è un segreto», è la risposta.

Nel Pd cala il gelo. Il vice segretario Lorenzo Guerini sentenzia: «Una sciocchezza incredibile». Sui social network si scatenano gli insulti. «Aspetto le scuse di Fassina», twitta Angelo Rughetti, «accuse gravi e inopportune», il popolare Simone Valiante, «Ha perso lucidità, si riposi» attacca Edoardo Patriarca. Portaborse e ultrà renziani usano espressioni forti. Anche fra i bersaniani doc, all’epoca un gruppo compatto oggi sfilacciati in almeno tre correnti, come ha certificato la riunione di mercoledì sera alla camera, l’uscita non è apprezzata.

Fassina è un dirigente appassionato e impulsivo, ma è difficile che una battuta così gli sia sfuggita. Quel 19 aprile 2013 i renziani appena eletti erano meno di 50, quindi aritmeticamente non possono portare da soli la responsabilità di quell’episodio. Che infatti fu messo in capo, sempre rigorosamente a microfoni spenti, ai popolari infuriati per il precedente affossamento di Marini (a cui Renzi contribuì apertamente) e ai dalemiani maltolleranti verso il professore sin dal ’98.

È vero però che nel pomeriggio di quel 19 aprile, appena consumata la votazione, mentre la camera era nel caos e il Pd nel panico, fu proprio Renzi, da Firenze, a dichiarare: «La candidatura di Prodi non c’è più». Una conclusione curiosamente frettolosa: giudicata una firma sul delitto.

Stavolta neanche Bersani difende il suo ex braccio destro: «È la sua opinione», dice, del resto «allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Bersani. L’importante è che quella cosa non la facciamo più».

In questi giorni fra Palazzo Chigi e la camera circolano liste di ’inaffidabili’ sull’elezione del Colle, la prova del nove della leadership (e della premiership) di Renzi. E per chi non è in linea con il capo, il rischio di essere bollato del marchio d’infamia dei nuovi 101 c’è: «Io che una slealtà l’ho subita, pratico lealtà», conclude l’ex segretario. «L’unica cosa che tanti di noi chiedono è che non si pensi mai di preparare la minestra con la destra e farla bere con forza a un pezzo del Pd».

L’ex portavoce di Prodi Sandra Zampa, oggi molto vicina a Renzi, non smentisce del tutto Fassina: «Immagino che intendesse dire che anche la componente renziana, o meglio alcuni renziani, hanno partecipato all’ affossamento». Un solo capo «non c’è stato», ricostruisce, «non dico che Renzi non c’entrasse, però non credo che lui avesse dato indicazioni ai suoi per non votare Prodi. Di alcuni renziani sicuramente c’è stata la regia, ma anche Bersani è stato tradito dai suoi. Poi hanno partecipato quelli che erano arrabbiati per la vicenda Marini».

All’epoca – altri tempi – i renziani erano una cinquantina. Per arrivare ai 101, o forse ai reali 121 (contando i voti che sul Professore arrivarono dai 5 stelle) ne mancano altrettanti. Quel voto fu insomma una specie di «Assassinio sull’Orient Express», quello che si consuma nel giallo di Agatha Christie in cui tutti i passeggeri di un treno partecipano ad un omicidio con la loro personalissima coltellata.

Un delitto da cui «ha tratto vantaggio chi voleva far fuori Bersani e il suo no alle larghe intese. Non c’è stata una regia unica, ma certo ci fu un obiettivo comune», ricorda Chiara Geloni, all’epoca stretta collaboratrice di Bersani che poi, con Stefano di Traglia ha raccontato quella vicenda nel libro Giorni Bugiardi.

Per questo sull’episodio il Pd non volle mai affrontare una discussione aperta. Invece la letteratura su quel delitto è sterminata. «Fu il collasso della classe dirigente di centrosinistra», ha scritto Walter Tocci in Sulle orme del gambero. Il giornalista dell’Espresso Marco Damilano, in Chi ha sbagliato più forte, trascrisse un’intervista a uno dei 101, una confessione anonima di un dirigente dalemiano.

Ma è l’anno zero della storia recente del partito e rischia di restare il fantasma, il buco nero delle origini dell’era Renzi.