Beirut è apparsa come una città fantasma per tutta la giornata di ieri. Lo sciopero del trasporto privato dovuto ai rincari ormai quotidiani della benzina ha di fatto paralizzato la capitale e le arterie principali del paese. Il presidente del sindacato dei trasporti su gomma Bassam Tleis aveva annunciato «la giornata di collera e di paralisi del paese» di ieri il 22 dicembre scorso quando aveva invitato tutti i libanesi toccati dalla crisi a prendere parte alla manifestazioni tra le 5 e le 17.

LA DOLLARIZZAZIONE dell’economia libanese è tra le cause della crisi finanziaria cominciata nel 2019, ma prevista da tempo. La lira agganciata al dollaro a un tasso fisso di 1.507,5 lire dal 1997 ha favorito negli anni la bolla economica e finanziaria che una volta scoppiata ha precipitato in tempi brevissimi il paese nel baratro. Al mercato nero il dollaro ha superato pochi giorni fa le 33mila lire.

La svalutazione della lira e l’interruzione dei sussidi statali l’estate scorsa che calmieravano il prezzo della benzina l’ha fatta schizzare oggi oltre le 400mila lire per 20 litri, come si conta qui, ovvero ai massimi storici. Crisi del petrolio che vuol dire anche minore produzione di elettricità pubblica, aumento dei prezzi delle forniture dei generatori privati e varie ore di buio totale al giorno.

Le aggressive politiche neo-liberiste implementate dall’allora premier Rafiq Hariri dopo gli anni della guerra civile (1975-90) hanno privilegiato il terziario e forti di una lira agganciata al dollaro hanno favorito le importazioni, mentre la produzione di beni primari e secondari è rimasta al 20% del fabbisogno nazionale. Crollato il castello finanziario, l’economia reale resta oggi dollarizzata, si continua a importare quasi tutto, ma la maggior parte della popolazione fa i conti con la lira deprezzata.

DIECI LITRI D’ACQUA, prima della crisi, con un’economia gonfiata costavano 1500 lire, 1 dollaro. Oggi, con il dollaro fra le 30 e le 33mila, costano 15/16mila e cioè 50cent. Chi continua a essere pagato in lire, anche laddove gli stipendi sono aumentati di un minimo, ha evidenti svantaggi, mentre chi ha accesso al dollaro ha un enorme potere d’acquisto. La media borghesia, le classi subalterne, gli statali, l’esercito sono tra i più colpiti dal fenomeno. I pochi ricchi si arricchiscono.

«Il problema è che guadagniamo in lire ma dobbiamo pagare tutto in dollari. L’affitto è in dollari, le rate dell’auto sono in dollari. Prima noi tassisti facevamo una vita degna, mentre oggi non riusciamo a sopravvivere. Lo stato aveva promesso aiuti che non sono mai arrivati» ci dice Alaa Farhat, mentre col suo tassì staziona con un piccolo gruppo di colleghi davanti alla moschea Al-Amin in Piazza dei Martiri a Beirut che la polizia ha chiuso al traffico. «Non compriamo più la carne, neanche il pollo. Mangiamo riso, verdure, legumi: fa bene alla salute, il governo ci tiene alla nostra salute!» è il commento sarcastico seguito da una risata triste di un altro tassista.

APPENA INSEDIATO a settembre, il premier Mikati aveva in effetti promesso aiuti. L’ennesima impasse politica ha però fatto in modo che da ottobre il governo non si sia ancora riunito. La conseguenza è che gli aiuti economici promessi al Libano dalla comunità internazionale diretta da Macron in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut sono ancora bloccati e che la mano tesa dal Fondo monetario internazionale non è stata ancora afferrata.

Essere alla vigilia delle elezioni del 15 maggio non aiuta. La tensione interna tra le forze politiche sale, come hanno dimostrato gli scontri a fuoco del 14 ottobre scorso a Tayyoune, sull’antica linea di confine tra Beirut est e ovest e nei quali sono morte 7 persone, tra cecchini vicini alle Forze Libanesi e un corteo di Amal/Hizb’allah che chiedeva la rimozione del giudice Bitar che indaga sui fatti del porto, accusato da questi ultimi di essere politicizzato. La crisi diplomatica degli ultimi mesi con il Golfo è la prova che la questione libanese valica i confini nazionali. A grandi linee, tornano a polarizzarsi nella regione, come all’interno del paese, le posizioni pro e anti Hezb’allah-Tehran-Damasco.

I BLOCCHI ANNUNCIATI dai trasportatori ci sono stati, ma il popolo non ha preso parte alle proteste. Una Beirut semideserta, molti i negozi chiusi, segno della rassegnazione di chi sente che tutto è ormai inutile. La crisi ha paradossalmente ma comprensibilmente rinsaldato i vecchi vincoli clientelari ora che le necessità sono ancora più concrete o allontanato definitivamente i cittadini dalla cosa pubblica. Rimane poco delle speranze di una rivoluzione prima pacifica, poi a tratti violenta, di un ormai lontanissimo 17 ottobre 2019, di quel kullun ya’nee kullun, «tutti vuol dire tutti», che chiedeva la rimozione in blocco di una classe politica corrotta al potere da prima della guerra civile.

Solo mercoledì uno sparuto ma agguerrito gruppo di dissidenti di sinistra ha attaccato la sede della Banca Centrale, ma è stato disperso dalla polizia. Martedì la giudice Ghada Aoun ha interdetto l’uscita dal paese al governatore della Banca Centrale Riad Salameh in carica da trent’anni e uomo di Rafiq Hariri, già inquisito in Svizzera e Francia dal 2020 per frode fiscale e riciclaggio di denaro. Salameh avrebbe creato uno schema Ponzi alla base del collasso libanese e trasferito tramite società offshore importanti quantità di denaro all’estero. Oggi i libanesi che possono lasciano il paese. Le richieste di visti e permessi di soggiorno sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi due anni.

IL 74% DELLA POPOLAZIONE vive in povertà e se si prendono in considerazione i dati di accesso a sanità, educazione e servizi pubblici la percentuale sale all’82%, cifra raddoppiata rispetto al 42% del 2019. Questi i numeri forniti dal report annuale dell’agenzia Onu Escwa sulla «povertà multidimensionale» in Libano del settembre 2021. Lo stallo però continua e il paese sprofonda giorno dopo giorno nelle sabbie mobili di una crisi senza fine.