Christophe Gans non è un cineasta molto prolifico. Dal 1993, anno del film collettivo Necronomicon, del quale dirige il segmento The Drawned, firma solo tre lungometraggi a intervalli di tempo sempre crescenti. Cinefilo espertissimo e dal gusto articolato, è tra i fondatori della storica rivista Starfix, esordisce con un omaggio amatoriale a Mario Bava (Silver Slime, si legge Bava d’argento…) e crea la collana HK dedicata ai capolavori del cinema di Hong Kong. Se Crying Freeman giunge a soli due anni di distanza da Necronomicon, al successivo Il patto dei lupi, il più noto dei titoli di Gans, sono necessari sei anni prima di vedere il buio delle sale.

I successivi sei anni che conducono a Silent Hill, versione filmica dell’omonimo videogioco horror, sono costellati di progetti non realizzati, fra i quali spiccano almeno un Diabolik, un Rahan – Ragazzo della giungla. Rispetto all’interesse suscitato da Il patto dei lupi, Silent Hill va incontro a un’accoglienza contraddittoria, scontentando sia gli aficionado del gioco che i cinefili duri e puri, anche se il film, in realtà, è un’operazione intelligente e colta realizzata a partire da una commessa quasi impossibile. Non meraviglia quindi che la forbice temporale fra Silent Hill e La bella e la bestia aumenti considerevolmente.

Ben otto anni separano i due film, senza contare l’ennesima strage di progetti non realizzati. Rispetto ai nomi della scuderia della EuropaCorp come Pierre Morel, Olivier Megaton o Louis Leterrier, Gans si posiziona agli antipodi. Dotato di una consapevolezza cinefila d’altri tempi, nella quale s’intrecciano le scoperte del cinema fantastico de ’60 e ’70, un gusto per il fantastico libero dalla sudditanza nei confronti della verosimiglianza, un amore non banale per le pratiche basse e una grande attenzione nei confronti delle tecnologie emergenti, Gans è probabilmente il nome più interessante del cinema transalpino degli ultimi decenni. Ciò non toglie che La bella e la bestia, progetto nel quale ha riversato generosamente tutte le sue energie, non convinca del tutto. Con ogni evidenza lavoro nel quale è inciampato e che ha accettato per evitare di prolungare la sua lontananza dal set, Gans fatica chiaramente a gestire l’equilibrio fra la fiaba generalista, con i suoi inevitabili siparietti comici e sentimentali, rispetto alle immersioni nel fantastico barocco nel quale il melodramma si manifesta a tratti con grande convinzione.

Se il modello Cocteau è inarrivabile, va altresì specificato che Gans opera la sua rilettura della fiaba recuperando tutti gli elementi esclusi dal film del 1946. Dotato di un gusto sincretico che gli permette di citare le scenografie langhiane de I Nibelunghi e situazioni topiche da La principessa Mononoke di Hayao Myazaki, strizzando l’occhio alla versione animata della Disney, il regista ricorre ampiamente alla grafica digitale ma utilizzandola come se fosse parte di un progetto scenografico e non un sostitutivo del reale. La bella e la bestia secondo Gans è prima di tutto un universo cinematografico composito nel quale mettere in scena storie condivise, come l’amore impossibile e assoluto, e polemizzare con la borghesia, predatrice, priva di sogni e colonizzatrice d’immaginario. Il castello della Bestia diventa così un luogo sottratto alle regole del tempo e della fisica opposto al mondo del denaro. Impossibile non notare i momenti in cui l’immaginario del regista vorrebbe spiccare il volo ma resta aggrappato ai limiti di una commessa che chiede invece uno spettacolo adatto a tutte le età. Impossibile non notare come Gans si sbarazzi delle scene di raccordo con evidente indifferenza e di come tenti, di popolare il set dei fantasmi che abitano la sua cinefilia.

Realizzato negli studi Babelsberg, La bella e la bestia risulta quindi privo della follia caratteristica del cinema che Gans ha realizzato sinora. Cosa che non giustifica però la violenza di talune stroncature, considerato che Gans è autentico talento cinefilo e che in un suo film sbagliato c’è comunque più vita che in altri autori ben più blasonati.