La sosta nelle stanze della biblioteca di Casa Leopardi può occupare anche l’intera visita; le storie, che gli scaffali, i libri catalogati per Monaldo dai figli (a proposito il sistema di catalogazione ha il suo «copyright»), l’educazione allo studio che lo stesso impartiva, il rifugio degli stessi bambini da una madre tanto passionale, quanto occupata a nascondere tali sentimenti dietro una coltre di soffocante rigore religioso e tanto simile alla retinata scansia dei libri proibiti (incrementati fino agli anni 80 del secolo scorso), sembrano ricomporsi ad ogni passo come una sutura nella quotidianità di quello che non è più un «borgo natio selvaggio».
Semmai lo sia mai stato. Tutto, infatti, a Recanati sembra parlare di Leopardi e non solo nella toponomastica, nei cartelli poetici, nella segnaletica turistica che le celebrazioni dei 200 anni dalla composizione dell’Infinito, hanno in questo periodo ancor più illuminato. Insomma, ogni angolo del paese marchigiano parla di Giacomo, il poeta, il filosofo, il «giovane favoloso», come ai suoi tempi tutto non faceva che parlare dei Leopardi, degli Antici e delle altre famiglie aristocratiche fedeli al Pontefice e allo Stato della Chiesa.
In quest’equivoco storico-oscurantista, perlopiù voluto e alimentato dagli stessi protagonisti, si consumavano due straordinarie e innovative intelligenze come quelle di Monaldo e di Giacomo: padre e figlio, distanti eppure vicini, fino all’ultimo in un vano rincorrersi e nello scriversi sempre più confidenzialmente, come dice Olimpia Leopardi, colei che della casata recanatese oggi tiene le redini e la memoria degli illustri avi e zii. «Due geni bastano in famiglia – afferma – Noi ci accontentiamo di avere avuto in eredità questa notevole fortuna e di avvertire non il peso intellettuale. E come ho già detto, tocca ribadire che i geni di famiglia sono due: Giacomo e oltre a lui, il padre Monaldo. Ma, per l’appunto, la responsabilità di un nome come Leopardi».
Senza preamboli e con una schiettezza sanamente da invidiare, sgombra il campo da facili considerazioni e racconta come la sua famiglia abbia saputo gestire e valorizzare quest’eredità dal grande peso sia economico sia morale: a cominciare dal padre Vanni e andando indietro fino a Pierfrancesco, l’ultimo dei fratelli di Giacomo, che chiamò uno dei figli come il fratello. «Fu proprio lui, il figlio di Pierfrancesco, uomo molto pratico, più volte sindaco di Recanati, a recuperare le carte di Leopardi che erano state prese da Antonio Ranieri e lasciate in eredità a due delle sue cameriere, peraltro analfabete. Devo dire meno male che le due donne, pur non capendo il contenuto di quei bauli pieni di scritti a loro sconosciuti non pensarono minimamente a disfarsi di quel prezioso carico. Fu una vera fortuna; e grazie a quel salvataggio oggi conosciamo lo Zibaldone e un altro Leopardi, già grande poeta e ora più grande pensatore».
In quest’impresa il Giacomo nipote fu sostenuto da Carducci e a pochi anni dal volger del XIX secolo fece una di quelle donazioni che restano negli annali della storia di una nazione. Diede, infatti, allo Stato gli autografi del poeta. «La condizione fu però quella – aggiunge Olimpia Leopardi – che questi venissero tutelati e disponibili a essere studiati». Insomma, il suo avo non si discostò dalla linea dettata da Monaldo: la cultura doveva essere appannaggio di tutti e non di pochi, «la sua Autobiografia che ho contribuito a ripubblicare lo testimonia».
E si torna alla biblioteca, un’epigrafe dice di questo, pur con qualche distinguo, oggi di poco conto. È il centro nevralgico pulsante di Casa Leopardi: «per me è imprescindibile guardare la Casa e non percorrere la biblioteca. Da lì tutto è partito. Così si può dire». Tuttavia lo sguardo cade sempre al di fuori di essa. Impossibile dunque per chi sa della biografia di Giacomo non correre al pensiero di cosa osservava Leopardi dalle finestre della sua casa per agognare quella fuga, poi e a più riprese tentata e esaudita, e fino alla fine incautamente accettata a Napoli come raccontano le infedeli memorie di Ranieri?
«Ma, non c’è solo lui, certamente la sua vita e la sua opera, s’irradiano sull’intera famiglia e da lui si ricostruisce avanti e indietro l’intera genealogia della famiglia che ricordo ha origini duecentesche».
Nella biblioteca un vano all’apparenza accessibile raccoglie questi documenti, mentre i due musei rimpiattati l’uno dall’altro capo della piazza del Sabato del Villaggio sono l’olio turistico e culturale dell’intero complesso leopardiano: «Uno ospita proprio sotto la casa di Silvia, che abbiamo fatto ricostruire con i mobili del tempo, e accanto al bookshop, l’installazione multimediale, Io nel pensier mi fingo, che abbiamo inaugurato quest’anno. A settembre s’aprirà a cura del F.A.I., che lo gestirà a venire, il colle dell’Infinito con una grande cerimonia alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella. Mentre l’altro museo è collocato in quelle che erano le scuderie dei cavalli e il ricovero delle carrozze; raccoglie ciò che è rimasto di quel tempo come la culla che Monaldo e Adelaide passavano di figlio in figlio e la vestina da battesimo di Giacomo e ancora tra manoscritti, libri, documenti, e tante altre memorabilia vi si trovano il calamaio in cui fu intinto l’inchiostro servito a scrivere L’infinito o la stadera con cui Monaldo acquistava a peso i libri e si prendeva i rimbrotti della moglie».
L’arcigna e anaffettiva Adelaide: «Impossibile negare ciò, i figli a più riprese nelle lettere ne parlano. Però si tace sul matrimonio osteggiato dalle loro due famiglie e però celebrato. La loro fu un’unione d’amore anche se, talvolta, si metteva di mezzo il bigottismo religioso tipico di quel periodo e di cui ne facevano le spese soprattutto i figli. Carlo, amatissimo da Giacomo e suo insostituibile compagno di giochi, fu ripudiato addirittura dalla famiglia per aver voluto sposare una donna non del suo lignaggio. Mi sono fatta l’idea che in tutti i Leopardi sia sempre serpeggiata una specie di sotterranea o più o meno manifesta ribellione».
E gli altri fratelli? «Paolina era una donna intelligentissima per la sua epoca. Traduttrice di Xavier De Maistre, giornalista e redattrice del foglio paterno La Voce della Ragione, riuscì ad emanciparsi grazie allo studio e alla lettura. Non era una bella donna, anzi era piuttosto bruttina come i ritratti e una fotografia ci mostrano. Ma riuscì a resistere chiusa, spesso letteralmente a chiave nella sua stanza a Palazzo, e a intrattenere solo rapporti epistolari con alcune sue coetanee fino a che la madre restò viva. Come Adelaide si vestiva di nero, ma una volta morta, Paolina a cinquant’anni cominciò ad organizzarsi un personalissimo viaggio in Italia, fece incontri intellettualmente stimolanti, addirittura abbandonò un abbigliamento divenuto per lei abituale. La sua vita cambiò radicalmente, divenne a colori come i suoi nuovi vestiti».