«Devi offendere e basta». C’è un talento speciale di cui solo alcuni registi sono dotati. Magari ne hanno altri ed importanti, ma mancano di questo: la intuizione anticipata di fenomeni socio-politici e culturali che solo più tardi si imporranno all’attenzione dei più. Il più talentuoso, da questo punto di vista ( anche da molti altri, ovviamente ), è in Italia certamente Nanni Moretti, basti pensare a «Il Caimano» che esce quando il berlusconismo non ha ancora dispiegato le sue grandi ali egemoniche; o ad «Habemus Papa», per non parlare di «Ecce Bombo».

L’altro italiano dotato di questo talento è un documentarista, come vengono rozzamente quasi sempre definiti quelli che i francesi, con maggiore attenzione per l’arte, chiamano «autori del cinema du reèl» ( l’arte, del resto, consiste proprio nel rendere visibile ciò che chi artista non è, da solo, non riesce a vedere ).Si chiama Daniele Segre e, in passato, attraverso le sue pellicole, ci è andato mostrando, fra molte altre cose, le nuove facce del lavoro e della lotta di classe.

Ora, con il suo ultimo film presentato nel novembre scorso al Festival di Torino, ci parla di tifoseria. Di per sé non sarebbe una scoperta, giacché in molti delle barbarie in cui è degenerata, hanno parlato da tempo. Lui stesso, del resto, ha girato sul tema, nel ’77: «Il potere deve essere bianco-nero» ( i colori della Juventus). Quest’ultimo, invece e più semplicemente: «Ragazzi di stadio. Quarant’anni dopo». (Ne ha scritto nel 2007 un bellissimo articolo sul manifesto Massimo Raffaelli).

Quattro decenni in cui non interviene solo un mutamento quantitativo del fenomeno, ma anche qualitativo, determinato dal come col tempo è cambiata l’egemonia politica. Prima sui muri di Torino le scritte del club juventino si intrecciavano con quelle degli autonomi, che il potere volevano fosse operaio, e dunque ai «drughi»( nome ispirato a «L’arancia meccanica») veniva naturale chiederne uno per la propria squadra, la Juventus. Oggi nemmeno del potere importa più a quelli del secondo anello della curva sud dello stadio torinese, a loro interessa oggi solo ed esclusivamente far fuori chi non è dei loro. Perciò la parola d’ordine attuale è :«devi offendere e basta». Cioè umiliare l’altro da te. E nemmeno perché è diverso, anche solo perché è altro.

Persino del calcio ai nuovi branchi importa ormai poco: non ne parlano più di tanto, non gli interessa valutare chi è bravo a giocare e chi no, la sola cosa che conta è che sia dei tuoi o degli altri. Sicché arrivano a sputare sui «miserabili» eroi del Torino periti nell’incidente aereo di Superga più di cinquant’anni fa. Nel frattempo la rabbia non è solo cresciuta, è andata sempre più perdendo di senso. Perché è la vita stessa di questa fascia ormai estesa di giovani ( ma non solo) marginalizzati che non ha più senso; e la loro ferocia appare come l’ urlo disperato di chi vorrebbe contare, esser riconosciuto, e finisce per sentirsi appagato nel solo modo che hanno a portata di mano: l’auto identificazione.

Mentre gridano di voler veder morti tutti quelli che non sono con loro invocano valori, che però, per l’appunto, non sono neppure più desunti dai meriti calcistici, bensì solo dall’appartenenza alla propria a-celebrata comunità. Un’altra faccia del sovranismo rivendicato da Salvini. (E non solo).

I film di Daniele hanno una forza speciale perché lui riesce ad includerti nella storia che viene raccontata mettendo in campo, in prima persona, i corpi stessi dei protagonisti, di ognuno di loro, abolendo il fastidioso, saccente e falsamente neutrale narratore, sicché resti tu e quei corpi, senza mediazione. Corpi che, oltretutto, nemmeno ti guardano, non ti assumono come interlocutore, chiusi come sono nel loro mondo, da cui non vogliono uscire perché quella è la loro sola vita, e non gli interessa nemmeno annetterti.

Quando ho visto «Ragazzi di stadio. Quarant’anni dopo» sono inorridita difronte alla passione vuota di senso con cui, esaltati da una fede da crociati, i nuovi drughi proclamavano i loro valori circoscritti dentro i confini della loro autoidentificazione. Ho avuto l’impressione di aver incontrato i barbari, ho provato paura e ho pensato di essere esposta alla violenza del branco, al ritorno dell’uomo a-sociale quale esisteva prima del lungo processo storico che lo ha portato via via a riconoscere e dunque dialogare con l’altro. Ho avvertito le stesse paure provate quando ho letto l’ultimo libro di Rita Di Leo, «Da Lenin a Zuckerberg», dove descrive il mondo nuovo comandato dagli algoritmi che sta ripercorrendo all’inverso il progresso verso la socialità.

C’è, in effetti, da aver paura, e però anche da interrogarci su di noi, sulla nostra incapacità, non solo di dare una risposta di senso a questa disperata richiesta che il branco esprime fornendo altre forme di protagonismo, ma persino di ascoltarla.

Sono una frangia, solo una frangia disadattata della nostra società, è vero. Ma guai a liquidarla come semplice barbarie, o come «fascisti». Sarebbe una reazione propria alle famose famigerate élites, solo una consolante autogiustificazione della nostra incapacità.

Volete vedere il film? Insistete perché i cineclub con cui siete in contatto lo richiedano. Molte sale hanno paura di una rappresaglia.