Se la passano di mano in mano, se la sfregano tra le dita, qualcuno se l’avvicina al naso, come se l’odore potesse tradirne la consistenza: «Che tessuto è? Non sembra cotone».
A MOSUL OVEST, o right, come la chiamano gli iracheni, l’estetica della vittoria è anche questo: una bandiera dell’autoproclamato Califfato mostrata, con orgoglio trattenuto, alla stregua di trofeo.
Il drappo nero, di raso robusto, la professione di fede islamica cucita in bianco, viene aperto nel salotto di un edificio su due piani nella parte occidentale della città, a una manciata di passi da quello che resta della città vecchia, lungo l’arteria che conduce al posto di blocco in direzione dell’aeroporto.
[do action=”citazione”]Quella stanza, che un tempo ospitava l’intimità di una qualche famiglia, è ora il quartier generale della «Golden Division», le forze speciali irachene che hanno preso il pieno controllo dell’area.[/do]
Tutt’intorno carrarmati e sentinelle pattugliano la zona, per le strade si addestrano le nuove reclute. Gli uomini del Battaglione Najaf, guidati dal Colonnello Ali Hussain hanno finito il loro lavoro e, dall’annuncio della liberazione, aspettano l’ordine di spostarsi e di raggiungere il resto delle truppe a Tal Afar, la nuova frontiera dell’offensiva contro lo Stato Islamico, una sessantina di km a est di Mosul.

IL SENSO DI UNA VITTORIA, dal retrogusto effimero, passa anche dal bisogno di toccare – e far toccare – con mano, il corpo della conquista, come se quegli oggetti avessero il potere di renderla duratura.
«Abbiamo mutande e reggiseni delle donne di Daesh»: il medico di una clinica improvvisata all’ingresso della città vecchia mercanteggia i souvenirs dello Stato Islamico ma – avverte – si fa pagare molto. Stemmi da cucire sul braccio, porta munizioni, qualche piatto, altre bandiere.
Hussain Ayad ha 29 anni, le spalle decorate dal grado di Capitano, un sorriso arguto e uno squarcio nella guancia sinistra, foro di uscita di un proiettile che gli ha letteralmente attraversato la faccia, da parte a parte.
È stato tra i protagonisti della battaglia finale per la presa di Mosul, è uno degli uomini su cui pesa l’accusa di non aver saputo adattare la strategia di liberazione ai dettami del diritto umanitario internazionale.
UNA GUERRA DI CONQUISTA, raggiunta «a qualsiasi costo» come ha denunciato Amnesty International in un rapporto diffuso lo scorso luglio.
Dopo l’articolo uscito, nello stesso periodo, su Middle East Eye, la prudenza ha preso il posto della sbruffoneria con cui, come testimoniano giornalisti e abitanti sopravvissuti, i militari rivendicavano di non aver usato alcun tipo di cautela nella salvaguardia dei civili. Anzi.
[do action=”citazione”]Ora, la realtà dei fatti colma il silenzio delle dichiarazioni, di facciata, di chi, a qualsiasi costo appunto, ha compiuto la pulizia che gli era stata comandata, senza volere testimoni tra i piedi.[/do]
Il bando per i giornalisti in città vecchia dura ormai da settimane e quello che resta è il brutto epilogo di un qualcosa che ha l’aspetto e la puzza di una carneficina, perpetrata da più parti.
Impossibile, al momento, che qualcuno, là in mezzo, sia sopravvissuto. Le ruspe hanno polverizzato gli edifici e le vie di fuga dalle macerie. Chiunque ci fosse là sotto, jihadista o civile, è stato sepolto vivo, insieme alla possibilità di conoscere davvero il numero dei morti.
Una scarpa spaiata, la rete di un letto, i resti di una cassa toracica e un femore bruciato, a ricordare che, all’inizio di luglio, le stime parlavano di circa 50 mila civili ancora intrappolati nel dedalo di quelle strade. Un mortaio inesploso conficcato nel terreno, l’alfabeto di una mitragliatrice sui muri di una casa, a ricordare che, laddove non arriva la furia della natura, ci pensa l’uomo.
Le rovine del centro storico di Katmandu, sventrato nell’aprile del 2015 da quei quasi otto gradi di viscere terrestri, impallidiscono davanti al miscuglio di polvere, sangue, sudore e colpa che è, oggigiorno, il nucleo più antico della città di Ninive.
Gli Humvee (gli High Mobility Multipurpose Wheeled Vehicl) delle forze speciali procedono spediti sull’unico sentiero che sanno ripulito da mine e dal mirino dei cecchini.

GLI STIVALI CAMMINANO svelti fino alle rive del Tigri. Dall’altra parte del fiume, la vita ha di nuovo il sapore della routine: il traffico, i negozi di alimentari, gli studenti all’Università.
Da questa parte, un limbo sospeso, i segni di una chirurgia da macellaio, di regolamenti di conti sommari e la prova tangibile di come il calcestruzzo e la promessa di investimenti non bastino a ricostruire la fiducia.
Nonostante l’ottimismo del Ministero delle migrazioni iracheno, tra case distrutte e ordigni inesplosi, il contro esodo procede a rilento.
Il tardivo ritorno a casa e la difficile ricostruzione di un’identità per chi, oltre al trauma della guerra, dei bombardamenti e della privazione della libertà, ora sente anche il peso dello stigma sociale dell’accusa di collaborazionismo per aver, di fatto, strizzato l’occhio alla rivalsa dei sunniti.
Alla fine di luglio è stato chiuso il campo di Bartalla. La versione ufficiale parla di mancanza di servizi primari, come acqua ed elettricità. La versione ufficiosa (e forse piú aderente alla realtà) fa riferimento alla scelta di eliminare un obiettivo sensibile o, nelle parole di Human Rights Watch, un «campo di riabilitazione», un luogo di punizione collettiva per oltre 170 famiglie sospettate di essere affiliate allo Stato Islamico.
SONO STATE DISPERSE in altri campi della piana di Ninive, ad Hamam al Alil e a Qayyarah e si sono confuse tra i circa tre milioni di sfollati interni.
[do action=”citazione”]«Sei di Daesh?» La domanda diventa un mantra, ripetuto alla nausea dal colonnello Hussain. Nell’insistenza di quelle poche parole e nel livore con cui vengono pronunciate sembra si annidi tutto il peso delle perdite tra le truppe lealiste, stimate in circa 20 uomini al giorno, per mesi.[/do]
Questa è una delle tante cose che, da quelle parti, in molti sanno ma nessuno dice. Un’emorragia di soldati, impreparati ad una battaglia corpo a corpo, metro per metro, tra le insidie dei vicoli della città vecchia. S.H. ha 25 anni e la barba corta.
È stato arrestato la mattina dello scorso 3 agosto al mercato di Mosul Ovest. Le forze speciali lo hanno interrogato nella stanza dove, poco prima, mostravano la bandiera nera.
IN GINOCCHIO, la faccia rivolta verso il muro, una camicia buttata sulle spalle, a coprire l’impronta di uno stivale all’altezza delle scapole.
«Non so chi fosse il mio capo, so che il comandante della base si faceva chiamare Abu Abdul Rahaman» dice mentre racconta delle due settimane di addestramento tra la Siria e l’Iraq.
«Facevamo ginnastica e ci insegnavano ad usare le armi, gli AK 47. Ci facevano sparare per la strada, in pieno giorno e ci facevano correre». Nella stanza lo raggiungono la madre e una bambina di 16 anni con in braccio il figlio di pochi mesi.
È stato per prendere quella ragazza in moglie che ha scelto, nell’ottobre del 2014, di arruolarsi nelle fila dello Stato Islamico. «Sarebbero state le mie seconde nozze ma la sua famiglia non voleva che ci sposassimo, non avevo abbastanza soldi. Non ero d’accordo con quelli di Daesh ma era l’unico modo che avevo per prenderla in moglie».
S.H ha colmato così lo iato sulla scala del prestigio sociale che, ora, nel migliore dei casi pagherà con una condanna al tribunale di Mosul o, nel peggiore, con un’esecuzione sommaria all’angolo della strada.
Una catastrofe che si somma alla catastrofe là, nell’antica città di Ninive, dove la suggestione dei libri di storia cede il passo alla brutalità della vita vera.