In principio fu Giulio Tremonti. Fu lui, nel giugno del 2011, a rompere il fronte del governo raccontando ai magistrati napoletani che lo interrogavano nell’ambito dell’inchiesta sulla P4 di una sua litigata con Silvio Berlusconi sulla manovra economica. Terminata con un altolà rivolto dal ministro dell’economia al premier: non sarò vittima del «metodo Boffo». E Tremonti spiegò: «Mi riferisco alla propalazione sui mass-media di notizie riservate e/o infondate atte a screditare chi viene preso di mira».

Altra epoca, e sono ora altri ministri del Pdl, ancorché scopertisi «diversamente berlusconiani», a rievocare il «trattamento Boffo», indignati per l’editoriale di Alessandro Sallusti sul Giornale di ieri: Alfano, Quagliariello, Lorenzin, Lupi e Di Girolamo ventilano un loro futuro fuori da Forza Italia, «non si capisce se sulle orme di quel genio di Gianfranco Fini», ha scritto il fidanzato della Pitonessa. Gianfranco Fini? Perché questo riferimento al cognato di Giancarlo Tulliani? Forse Il Giornale sta velatamente minacciando l’orchestrazione di una campagna come quella sulla famosa casa di Montecarlo? O come quella che, appunto, portò alle dimissioni del direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di aver criticato lo «stile di vita» del Cavaliere?

Il vicepremier Angelino Alfano e gli altri ministri del Pdl non ci stanno: «È bene dire subito al direttore del Giornale che se intende impaurirci con il paragone a Gianfranco Fini, sappia che non avrà case a Montecarlo su cui costruire campagne. Se il metodo Boffo ha forse funzionato con qualcuno, non funzionerà con noi che eravamo accanto a Berlusconi quando il direttore de Il Giornale lavorava nella redazione che divulgò l’informazione di garanzia al nostro presidente, durante il G7 di Napoli, nel 1994», mettono le mani avanti i cinque, con un accenno di ritorsione.

Certo, fa un certo effetto sentirli parlare così, fuori dai denti, di «metodo Boffo». Per dire: il 3 settembre 2009, quando il direttore di Avvenire si dimise dalla guida del quotidiano della Cei, Gaetano Quagliariello, allora vicecapogruppo del Pdl al senato, dichiarava a Tg unificati: «Mi auguro che queste dimissioni servano a svelenire il clima che da tre mesi ha tolto nobilità alla politica. Credo che i cittadini ne abbiano abbastanza di una politica fatta dal buco della serratura». Più che con Vittorio Feltri, Quagliariello ce l’aveva con «le forze di sinistra» e i «gruppi editoriali» che «da tre mesi», appunto, si erano intromessi nelle Arcore’s nights. Insomma, le dimissioni di Boffo, pareva più che altro voler dire Quagliariello, servano da monito a chi insiste nell’impicciarsi di cene eleganti e affini. Due mesi più tardi, a Bruno Vespa che gli chiedeva se non avrebbe preferito evitare il «caso Boffo», Angelino Alfano rispondeva prendendo le distanze, ma senza biasimo: «Feltri è un giornalista certamente di centrodestra, che assume però le sue posizioni in assoluta autonomia. E che è geloso di questa autonomia. Questo vale per il caso Boffo come per altri interventi del giornale nel dibattito politico recente». E Sallusti? Forse ora Alfano vuole insinuare che il direttore non è autonomo da Daniela Santanchè? O forse l’autonomia di un giornalista non vale più quando si diventa oggetto delle sue attenzioni?

E che dire dell’ex presidente della camera? Poco prima delle elezioni del febbraio scorso, sempre Alfano sentenziò: il governo Berlusconi è caduto perché «un traditore di nome Gianfranco Fini ha spostato i suoi voti a sinistra, senza che sentisse il dovere morale di lasciare la poltrona più alta di Montecitorio. Adesso, però, i sondaggi lo inchiodano sul prefisso telefonico di Roma, 06». E ancora: «Fini sta giocando una partita in una squadra di secondo piano. È pronto sostenere Bersani qualora dovesse vincere in modo malfermo o litigare con Vendola. Fini è pronto ad andare a sinistra». Come è andata a finire dopo la «non vittoria» di Bersani è noto. La partita tra falchi, pitonesse e colombe è solo all’inizio.