«Non mi interessa. Non so di che cosa parla. Alla riunione dei senatori Pd non ci vado, ho altro da fare. E quello che decidono neanche voglio saperlo». Taglia corto Felice Casson, uno dei tre dissidenti Pd – gli altri due sono Mineo e Lucrezia Ricchiuti – che lo scorso 9 ottobre al momento della fiducia sul jobs act sono usciti dall’aula scatenando un’iradiddio di proteste dei loro compagni. Oggi il gruppo del Pd di Palazzo Madama si riunirà per affrontare il dossier su di loro. È meno introverso il giornalista Corradino Mineo, ma non meno tranchant: «Chi chiede la nostra testa o è un cretino o è un grillino. Ma si sono resi conto cos’è successo martedì sul Def? Servivano 161 voti, e se non c’eravamo noi quattro», Mineo nel computo dell’area civatiana aggiunge Walter Tocci, che ha votato sì alla fiducia ma subito dopo ha rassegnato le dimissioni dall’aula, «e se non votava l’ex M5S Orellana, il governo andava sotto. Quindi se qualcuno vuole fare il duro prima trovi i voti. Altrimenti il governo cade e allora dovrà andare da Napolitano. Ma a proporre cosa? Un governo con Berlusconi? Renzi piuttosto impari a usare meno il voto di fiducia. E si ricordi: in nessun programma del Pd c’è scritto di cancellare l’art.18 e di isolare la Cgil».

Dunque, lungi dall’essere preoccupati, i dissidenti rilanciano. La posizione di Casson è la più delicata anche per un’altra vicenda: si è «autosospeso» dal gruppo perché nella giunta delle immunità il Pd ha votato contro l’utilizzo delle intercettazioni del senatore Ncd Azzolini, indagato per una presunta maxifrode sul Porto di Molfetta. E se l’aula non ribalterà il voto, l’ex pm potrebbe andarsene dal gruppo dem con le sue gambe.

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Il caso di Mineo è diverso: «Di noi all’assemblea non si parlerà neppure», prevede. «Ora il vero problema di Zanda», il presidente del gruppo, «è far cambiare idea a Tocci. Perché se le sue dimissioni arrivano al dibattito dell’aula si scatenerà una discussione pubblica che farebbe molto male a Renzi». Ma siccome, prosegue, «Renzi in politica è un genio, anche se ha qualche aspetto allarmante» alla fine «troverà il modo per far rientrare le dimissioni. E chiudere la storia».

In effetti potrebbe andare così, almeno a interpretare i toni dialoganti di Giorgio Tonini, già veltroniano colto e oggi renziano accorto: non a caso il premier lo ha voluto in segreteria per controbilanciare gli ultras renzisti che con i propri eccessi rischiano di infilare il Pd in un grosso guaio, e cioè perdere quei tre-quattro preziosi voti che a Palazzo Madama fanno la differenza. «Non ci sarà nessun processo», anticipa Tonini, «chiederemo a loro stessi come intendono interpretare questo dissenso per il futuro. E poi decideremo tutti assieme. Io sono kantiano: penso che la scelta di ciascuno deve essere comunque una scelta universale.Quindi chiedo: la fiducia stavolta è passata, ma cosa succederebbe se tutti decidessimo di non votare la fiducia?». Certo, per il regolamento del gruppo quello dei tre «è un fallo»: il dissenso è previsto solo su questioni etiche e su principi fondamentali della Costituzione. «Negli anni scorsi queste regole servivano a far sentire a casa propria la minoranza cattolica in un partito a maggioranza laica. Oggi questo problema quasi non esiste più, ma la linea del dissenso si è spostata altrove. Un laico può sostenere che nell’art.18 ci sono i suoi valori etici? Vedremo». Ma sia chiaro: «nessuno vuole spingere nessun altro fuori, un moderno partito democratico per me è il massimo della libertà di espressione ma poi il massimo di disciplina nel voto». Per il futuro ci vogliono dunque nuove regole. Lo dicono anche i ’partitisti’ turchi. Come Matteo Orfini: «Casi come quelli di Civati, che non ha votato la fiducia né al governo Letta né al governo Renzi, non potranno più accadere. Dobbiamo trovare regole comuni che permettano da un lato il diritto al dissenso e, dall’altro, il rispetto di una comunità politica», ha avvertito qualche giorno fa sul Quotidiano nazionale. Il punto infatti è il futuro. Il tema della disciplina di gruppo si riproporrà se il 25 la minoranza Pd deciderà di partecipare alla manifestazione della Cgil contro Renzi. E soprattutto se alla camera arriverà un nuovo voto di fiducia sul jobs act. Molti dissidenti si allineeranno. Ma non tutti. Oltre a Civati anche Stefano Fassina di nuovo ieri ha spiegato che il testo del jobs act uscito dal senato «non è votabile in nessuna occasione». La decisioni di oggi farà precedente, e il precedente, in un partito all’americana, fa giurisprudenza.