Il pugilato è stato per eccellenza lo sport dei proletari, di coloro che vendevano forza lavoro ai migliori offerenti. In quello sport fatto di pugni vinceva chi scaricava con più forza i pugni sulla faccia dell’avversario. Pugni e sangue hanno sempre eccitato folle di poveri e sul ring hanno rappresentato i diseredati che sognavano il riscatto sociale. Se alla violenza come spettacolo aggiungiamo la descrizione dei meccanismi di una società dove la lotta per la vita e per il successo individuale sono condizione obbligata e morale collettiva, la scelta del mondo del pugilato rappresenta un campo (il ring) centrale per ogni metafora, al positivo o al negativo, delle specificità della vita americana. Città Amara, un libro scritto da Leonard Gardner nel 1969, che l’editore Fazi ristampa meritatamente con l’ottima traduzione di Stefano Tommolini e una postfazione di Stefano Franchini, ispirò nel 1972 John Huston che da giovane aveva praticato il pugilato non professionistico, produsse Fat City con Stacy Keach, un film forte anche se in ritardo rispetto alla letteratura americana degli anni Trenta.
Il romanzo scritto da Gardner, l’unico della sua vita, descrive il ring rovesciato, non più come hanno fatto in tanti luogo del riscatto e delle fortune dei grandi boxer, ma il palcoscenico che rappresenta la sconfitta dei falliti, dei perdenti, dei mediocri, che conducono una vita agra tra lavoro duro nei campi, infinite sbronze e vita nei bordelli. Stockton, grande centro agricolo a nord della California, dove Gardner è nato, sorge su un delta che rende il terreno fertile tra i più grandi d’America per produzione di frutta e verdura, noto per la manodopera impiegata e per i salari bassi, che tanto ricorda i luoghi del sud Italia da Foggia a Villa Literno, nonché centro agricolo contornato da taverne e case di tolleranza. Negli anni ’50 gli incontri di pugilato che si svolgevano all’auditorium di Stockton richiamavano un folto pubblico di braccianti, le palestre descritte da Gardner, sono frequentate da personaggi mediocri che nel pugilato avevano visto l’occasione per una vita migliore ma non riescono a sfondare. Dagli allenatori ai boxer aspirano tutti al grande circuito, ma non ce la fanno e si accontentano di vivere di illusioni, salvo svegliarsi ai primi pugni in faccia dell’ultimo sconosciuto. Gardner descrive con scrittura asciutta e chiara il mondo della boxe, che ha frequentato fin dall’adolescenza prima come spettatore con il padre ex pugile dilettante, e poi come novello pugile, fermandosi ai primi guantoni. Come pochi sa rendere quel mondo alla portata di tutti, senza eccedere nella descrizione dei personaggi, gli stessi che lavorano nei campi e frequentano il ring: « Una volta salito sul pullman il negro che aveva lavorato accanto a Tully, tutto fiero dei suoi sacchi in più, sfilò in mezzo ai colleghi gridando: fare sessanta sacchi di cipolle è un gioco da ragazzi».
Billy Tully, un pugile duramente provato dalle delusioni della vita e del ring, che sembra avviato verso una fulgida carriera, a detta dei suoi allenatori, ma poi abbandona tutto per riprendere senza grandi risultati, è costretto a lavorare nei campi per guadagnarsi da vivere, ma cede alla fatica: «Tully li seguì e si ritrovò in fondo al campo con i negri. Trascinandosi di sbieco, una gamba dopo l’altra con la zappetta che si alzava e si abbassava, riprese a lavorare con il medesimo sconforto di un condannato che avesse in mano lo strumento della sua stessa tortura. Di tutti i lavori odiosi che aveva fatto, quello era un tormento senza pari, peggio di quanto si potesse credere, e cominciò a convincersi che fosse il suo futuro, il suo lavoro definitivo, quello che aveva sempre cercato di eludere e a cui invece non sarebbe più sfuggito, ora che sua moglie l’aveva abbandonato e la sua carriera era finita per sempre». L’altro protagonista è Ernie Munger, giovane pugile di poche speranze, legato a Billy da amicizia e solidarietà, vincerà qualche incontro, poche decine di dollari come pietosa borsa, tornerà a casa in autostop per risparmiare i soldi del viaggio, il suo lavoro non cambia non c’è la svolta sperata, continuerà a fare il mestiere di sempre l’aiutante benzinaio fino alle due di notte e l’immancabile pullman che lo porta al lavoro ogni giorno: «Ernie si alzò e quando il pullman ruggì nel deposito, lui era già il primo in fondo al corridoio. Scese veloce gli scalini di metallo e uscì nell’aria balsamica tra i fiumi di nafta, spalancò la porta dell’anticamera, dove in molti ammucchiati e sfatti, sonnecchiavano seduti sulle panche».
Gardner descrive con chiarezza e spietatezza anche il mondo che circonda i pugili falliti, quello rappresentato da manager e allenatori: «Tully non aveva realizzato che la fama di essere un talento all’interno del quartiere, che aveva all’epoca, era il massimo cui poteva aspirare e non l’aveva capito neanche il suo manager, che lo mandò a combattere contro avversari di livello nazionale. Quella consapevolezza si abbattè spietatamente su di lui nel giro di cinque o sei incontri, mentre ciondolava, mancava i colpi e barcollava sul ring, con gli occhi ridotti a due fessure». Joyce Carol Oates nel libro Sulla Boxe pubblicato in Italia nel 1987 dalla casa editrice e/o definisce il lavoro di Gardner un manuale del fallimento in cui la boxe rappresenta l’attività naturale di uomini incapaci di comprendere la vita.