Era il 2002, dodici anni fa, e non c’erano nemmeno «le parole per dirlo». Un incubo senza potersi svegliare: non pervenuto, senza nome, un buco nero. Per quanto atavica, di violenza contro le donne, e nello specifico di violenza domestica, non si parlava, e men che mai di come fare a conoscerla e a contrastarla. Pure, questa è una storia in prima persona, il che ha un portato enorme di significati. Innanzitutto vuol dire che la donna narratrice è ancora viva – cosa tutt’altro che scontata – poi, che un giorno, qualcosa dentro di lei, le ha consentito intanto di vedere la calotta d’angoscia in cui era murata, quindi di cominciare a forarla, di bucare il silenzio, di percepire ancora se stessa oltre il baratro di non esistenza e solitudine in cui era precipitata, di denunciare. Sì, la certezza luminosa che un giorno per lei «il treno ha fischiato»! Ancora.

Vuol dire anche che dopo averlo detto a qualcuno di molto prossimo, quindi alla polizia, a un certo punto della sua vita ha sentito di trasmettere il suo vissuto pubblicamente ad altre donne, al mondo, in qualche modo di fare una sorta di outing, di rivelarsi: a me è successo, è stato così, io sono questa. Al di là di qualunque possibile ricaduta sulla sua persona. E che nel farlo, non ha cercato deleghe, né mediazioni altrui, cosa che ci sottrae al rischio, sempre presente in questi anni – fortunatamente segnati dalla «scoperta» del fenomeno – del racconto improprio, della retorica commiserante, del linguaggio inadeguato, delle statistiche che pure servono agli studi in materia e alla politica, della generalizzazione schiacciante il vissuto individuale, o peggio della strumentalizzazione. Come a dire, questo dolore è mio, questo inferno è stato mio, e sono io e nessun altro a raccontarvi come, per quali faticosissime vie, sono riuscita a prendere la mia storia nelle mie mani. Fino a trasformarla, fino a filare quanto di più oscuro abbia vissuto, alla luce dell’arte che non è mai morta in me.

È accaduto a Åsa Grennvall: con [/V_INIZIO]7 °Piano, la sua esperienza è diventata anche la sua tesi di diploma, Master of Fine Arts al Konstfack University College di Stoccolma, quindi un graphic novel pubblicato in Svezia appunto nel 2002 e ora tradotto da Laura Tonani qui da noi per le edizioni Hop! con una prefazione di Loredana Lipperini e una post di Amnesty International Italia.
Svezia, sì. E questo non stupisca, perché se nei giorni scorsi, su queste pagine, abbiamo lasciato una giovane donna afghana chiedere l’asilo svedese per sfuggire a una vita aberrante, al contempo, gli ultimi dati (2014), forniti dalla Agenzia della Ue per i diritti fondamentali, pongono il Paese scandinavo al terzo posto per percentuale di donne che hanno subito violenza domestica (46%), dopo la Danimarca (52%) e la Finlandia (47%).

Dunque, così come la violenza contro le donne è trasversale agli ambienti sociali, allo stesso modo non distingue tra Paesi più e meno evoluti, e sussiste accanto alla percentuale di occupazione femminile, quella svedese, più alta in Europa (71,8%), un fattore solitamente «preventivo». E mentre in ambito politico ci si interroga sulle ragioni di tutto questo (si tenga presente che a oggi solo 3 paesi, tra cui l’Italia nel 2013, hanno ratificato la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta contro la violenza di genere), Åsa Grennvall lo ha fatto, a suo modo, in bianco e nero, con un tocco basico e perturbante, con il linguaggio straniante del fumetto, dall’interno di una storia cominciata in una scuola di alta formazione in Belle Arti.

È qui che, con l’apprezzamento di un gruppo affine di amici, finalmente si sente libera di agire il suo modo di essere bohémien. In questa scena brillante e propulsiva, sembra quasi inevitabile l’apparire di quello che le sembra «Amore». Nils, suo carismatico compagno di accademia, tra tante ha scelto lei, i suoi complimenti toccano corde di gratificazione antica. Poi, fulminea, la convivenza. Vuole salvarla dagli strascichi di un passato di dolore, ricominceranno da zero, solo loro due … Ed ecco le prime crepe, i flash di gelosia delirante di lui (ma è perché mi ama …); la sua costruzione implacabile della ragnatela melmosa della violenza psicologica, dell’annichilimento. Denigra i capelli, il trucco, i tatuaggi, i vestiti neri di lei, libri, dischi, la sua stanza, diventa sempre più fagocitante nell’iniettarle un senso di colpa che in lei kafkianamente sempre più prolifera (su cosa, ci dà qualche indicazione «mia madre angoscia odio verso me stessa insicurezza»).

Progressivamente Åsa rinuncia a parti di sé, alle amicizie, fino alla solitudine totale (uno dei fattori inseparabili dai vissuti di violenza di genere). Quindi epiteti svilenti (ogni tracciato ha i suoi, eppure sono tristemente simili e come tali si elidono a vicenda …), la parola «puttana», rigurgito dei tarli del cervello maschile a tutte le latitudini, il passaggio alla violenza fisica, il ferro da stiro che le scaglia addosso, mentre il viso disegnato di lei si autorappresenta sempre più informe e invecchiato, ormai quasi invisibile a sé. E ancora i giri in auto, come «camera della tortura» scelta scientificamente perché nessuno può sentirla, come al 7 ° piano di quella casa dove chi li conosce li pensa felici e innamoratissimi… Da lì Åsa, ormai straccio liso da un’abitudine ottundente, si immagina un giorno di lasciarsi andare («non esistevo comunque»). Invece anche quel desiderio di dissoluzione contiene già la spinta a infrangere quella trincea mostruosa di non vita. Lui le strappa a morsi frammenti di pelle dalle mani. «La mia pelle». Åsa si avvinghia a quei brandelli di esistenza.

La sua storia può andare diversamente … cosa che avverrà soprattutto se sulla sua strada ci saranno il padre, una insegnante del college, un medico, un poliziotto, ciascuno a suo modo supportante (È sempre così? In Svezia? In Italia, altrove? O forse la paura di un altro calvario giudiziario dissuade dalla denuncia? per non parlare del numero di quelle archiviate …). Certo, le resta l’estenuante ricostruzione di un’autostima ridotta a immagine cubista, la lotta col fantasma oscuro di lui, ma a quell’accademia, a quella società cieca e connivente, nel «preistorico» 2002, Åsa Grennvall, riprendendosi se stessa, ha restituito la verità. Quale migliore tesi di diploma? maria_grosso_dcl@yahoo.it