Efisio Melis, Aurelio Porcu, Antonio Lara, Giovanni Lai, Felice Pili, Giovanni Casu… Nomi inequivocabilmente sardi che scivolano sulla platea ancora vuota del Betty Nansen Teatret. Associati a un numero, un titolo, talvolta un luogo, punteggiano l’inglese dolce e neutro, appena un po’ incrinato da una sorta di vibrazione affettuosa, con cui Andreas Fridolin Weis Bentzon catalogava oralmente le registrazioni effettuate tra il 1956 e il 1962 in Sardegna, parte di un lavoro più ampio, pubblicato una prima volta nel 1969 con il titolo di Is Launeddas, ma che ancora oggi sa di pietra miliare della ricerca etnomusicologica sul campo, sul campo della musica sarda in particolare, per il modo in cui questa viene raccontata e contestualizzata nella sua dimensione sociale.

Una vita (breve, Bentzon scompare nel 1971 appena 35enne) che il giovane antropologo danese, si direbbe un etnomusicistologo se tale figura fosse contemplata, spende intensamente, con un’urgenza spaventosa, tra i metallofoni balinesi e il suono continuo delle launeddas. Ovvero il più cocciuto rimando a qualcosa che già 2-3 mila anni fa dava di che danzare al Mediterraneo, il doppio flauto (o doppio clarinetto) a cui è stata aggiunta la terza canna, su tumbu, per il bordone appunto, generato con la tecnica della respirazione circolare.

 

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Il sestetto protagonista di DANSEJÆGER (foto Søren Meisner)

 

 

Potrebbe essere questo parente resistente di auloi e tibiae il protagonista di Dansejæger – Il cacciatore di danze, l’opera di Mauro Patricelli andata in scena in questi giorni nella capitale danese. E con esso quel continuum prodigioso, che però negli anni 50 minacciava di interrompersi (da qui la furia tenace con cui Bentzon si getta nell’impresa). Ma è evidente che in questo caso è il cacciatore e non la danza a prendersi la scena: il lavoro di Patricelli è funzionale a una narrazione disincantata della vita e delle ricerche sarde di Bentzon. È, insomma, il famoso dito che indica la luna ad avere la sua parte, in un’opera-documentario che ha la forza immaginifica, la tessitura poliritmica e tellurica del jazz d’avanguardia. Più vicina forse alla musica che Bentzon suonava con il fratello nella Adrian Bentzon’s New Orleans Orkester.

 

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Mauro Patricelli (foto Søren Meisner)

 

«Il riferimento all’opera è concettuale e non stilistico – spiega Patricelli -. Mi riferisco alla sfida dei pionieri dell’opera quelli della camerata Bardi a Firenze. Alla fine del Cinquecento l’obiettivo era creare una forma di arte musicale e scenica in cui si combinassero l’elemento musicale, quello della poesia, quello visivo dell’arte scenica, dei costumi. La mia idea è che l’opera non sia un genere in sé ma piuttosto un tentativo di integrare generi diversi. Provando a riattualizzare la sfida ho basato tutto il racconto su delle fonti ducumentarie (da qui l’elemento documentaristico) e l’ho messo in musica. Il criterio utilizzato è che tutto il lavoro dovesse scaturire da una reinterpretazione del materiale documentario – prosegue il compositore -. Il libretto è quindi piuttosto un collage di frammenti di interviste o testi di canti registrati da Fridolin, i video che integrano il racconto musicale sono reinterpretazioni del materiale foto video di Fridolin o film fatti su soggetti legati alla documentazione (ad esempio il video del registratore Maihak utilizzato da Fridolin)».

Il titolo parafrasa The Songhunter, il soprannome affibbiato a Alan Lomax che in quegli stessi anni rovistava con Diego Carpitella in altre tradizioni musicali e coreutiche italiane.

«La musica – spiega ancora Patricelli – è scritta reinterpretando singoli frammenti di danze per launeddas o del canto al setaccio o del canto a tenores (con l’eccezione del primo pezzo che invece è una immaginaria colonna sonora al film muto di Fridolin sul ballo sardo. Il riferimento all’opera antica è inoltre presente nella sistematica alternanza fra recitativo e aria. Come nell’opera tardo rinascimentale (in cui vigeva la norma aristotelica “racconta, non mostrare” il recitativo racconta gli eventi in maniera succinta e sbrigativa, quindi l’aria approfondisce gli aspetti emozionali psicologici».

Una parte importante ce l’hanno in apertura anche i piccoli passi collettivi col busto impietrito del ballu tondu. Scomposti e moltiplicati sullo sfondo, ora inseguono il ritmo dettato da Patricelli nel primo movimento, Etude I: Dance Hunter… Delle launeddas che accompagnavano la festa quel giorno si sono perse le tracce, perché Bentzon quando filmava non aveva la possibilità di registrare il sonoro in sincrono. Ma il vero motivo di questa rumorosa assenza, che si protrarrà per quattro quinti dell’opera e in un certo senso anche oltre, è che altrimenti «sarebbe stato come parlare di Dante e vedere la fotografia di Beatrice», sintetizza il compositore, nel dialogo con la platea che è seguito all’ultima replica.

Le launeddas si notano quasi di più, in questo ostinato silenzio. Non ce n’è che un vago sentore, oltre che sui titoli di coda, affiorante per pochi secondi, senza alcuna enfasi, nel quinto e ultimo “studio” – The Sound of Launeddas – An Essay. , subito aggredito dalla musica creata in scena da Mauro Patricelli al piano, Signe Asmussen soprano, Thommy Andersson al contrabbasso, Stefan Baur ai sassofoni, Matias Seibæk alle persussioni, Chano Olskær alla batteria e tutti, chi più chi meno, voci narranti scolpite sul ritmo.

Un’opera a suo modo devozionale, scevra da compiacimenti “primitivisti”. «Per me – prosegue l’autore – l’atto del registrare e documentare diventa piuttosto che un atto di salvataggio e studio, un vero e proprio atto creativo. Questo a causa dell’intrusività del gesto di documentazione musicale, la presenza di microfono e registratore».

 

Frdiolin Bentzon a Cagliari
Cagliari, 1958: Andreas Fridolin Bentzon con la sua Nimbus

 

 

La pensa così e anche di più Maria Giacobbe, scrittrice sardo-danese e informatrice di primo livello di questa docu-opera, o post-opera, che aggiunge lo stesso Fridolin tra gli elementi di “disturbo”. «In quegli anni lui era l’antropologo nuovo, quello che studia se stesso oltre agli oggetti dell’antropologia», dice tra l’altro nella clip che la riguarda. Lui che non passava inosservato, anche per quella fantastica Nimbus, la moto di fabbricazione danese su cui si muoveva, modificata quel tanto che basta per trasportare il registratore a bobine e l’attrezzatura per le sue inesorabili battute di caccia. Lui che per quanto provasse a parlare il campidanese e a diventare empaticamente “uno di loro” restava pur sempre un alieno. «C’è una foto in cui sta con dei pastori a Nule – dice ancora Giacobbe -. I pastori hanno gambali e scarponi di cuoio con grosse suole, lui ha dei sandali aperti e le gambe nude, il che nella Sardegna di allora era quasi osceno».