Non basta la filosofia o la letteratura della panchina, ci vuole la pratica. Non è davvero sufficiente ragionare sopra lo spazio sospeso e lo sguardo dagli assi di legno dell’arredo stradale, ci vuole l’uso, possibilmente quotidiano, dello strumento. Fino a immedesimarsi, fino a diventare panchina, con tanto di nome: Panca. Ma per farlo la condizione fondamentale è essere una riserva. Non un protagonista attivo del mondo ma un gregario ormai in disuso che sostiene con lo sguardo le vite altrui, uno che ha già dato e che le esistenze le vede non dall’alto in basso ma dal contrario, da un basso che costringe a narrare tutte quelle vite sparse, seppure conosciute in un frammento di tempo. Aspettando. Perché l’attesa è una condizione dell’azzardo di conoscenza che «svolazza come una farfalla». Questa la dichiarazione d’intenti di Viale Carso di Goffredo de Andreis (ed. Fuorilinea, pp 201, 16 euro), che non è un romanzo vero e proprio e nemmeno una serie di racconti interconnessi, ma un insofferente diario dei giorni.
L’autore non lo dichiara mai, ma fa intendere che la sua è una privilegiata, serena, perfino divertente, ricerca puntigliosa della pietà urbana, persa nella memoria cancellata del presente. Mentre insegue le giornate degli altri in attesa, in particolare quelle delle «efteriste», un neologismo inventato per descrivere le donne di servizio straniere e non solo «come se fossero nate tutte in borgata…le russe, le bielorusse e le ucraine, le rumene, che si chiamano tutte Alina. Le albanesi, le bangladesi, le asiatiche, le latine sudamericane e le italiane: tutte mia madre. Che poi al Tufello o al Trullo, a Centocelle o a Torpignattara e al Quarticciolo si troverebbero come a casa loro, col Sacro Cuore alle pareti fatto con gusci delle telline». Efteriste che curano e riproducono il decoro delle famiglie medio-borghesi di un quartiere «medio-alto» di Roma, Viale Carso appunto, case belle d’inizio secolo scorso, tante caserme tante e storiche sedi della Rai: qui intorno, l’autore lo fa intendere, girano disperate le tante voci mai andate in onda e i tanti altisonanti ordini del manicomio militare. E poi sono le stesse donne che usano le costole della strada e del mondo delle panchine malmesse, per aspettare quello che non arriva mai: il tram pubblico che non solo è desiderio inafferrabile, ma promessa di lungo periodo e che alla fine sopraggiunge ad ogni «morte di papa». Da questo punto di vista la panchina sottocasa è un premio alla vita. Permette di dilatare subito le quattro mura dell’appartamento e i vizi privati, dentro la strada. Come per un eterno, quotidiano on the road. La panchina è «generosa», aperta a tutti o meglio seduta con tutte e tutti, conosce il didietro di ogni passante stanco, è cosmopolita «tendente all’internazionalismo». Insomma la panchina non è una merce, è valore d’uso puro, forse è l’unico attrezzo al mondo che non sia ancora diventato merce e che il mercato, disattento, ha disdegnato. Almeno finora. Perché una zona senza tempo è davvero appetibile.
Il racconto si avvale di preziosi dialoghi comico-satirici che oscillano tra la teatralità di Fantozzi e la solitudine dello scarafaggio di Kafka, in uno scambio continuo temporale e di luogo. Messo in pericolo solo dalle certezze che si aggirano e si annidano nei condomini: come quelle dei cani dei buddisti, la setta di un primo piano che con la propria nascosta e presunta autorità non permette distrazioni e intimorisce chi cerca l’attesa. Perché poi tentare di trovare faticosamente e ormai senza speranza, un fantomatico, lontano buen retiro. L’obiettivo di un’intera esistenza sta lì, sottocasa. Avvolto da nuovi esilaranti miasmi, puzze, sogni e colori urbani. Perché se il colore «aperol del tramonto si fonde con il sogno delle onde turchesi dei Tropici» non siete dentro uno spot pubblicitario, di sicuro siete seduti su una panchina. Seduti sull’«ovattato silenzio generale». L’autobus intanto arriverà prima del prossimo equinozio. Inoltre è la zona dedicata, per eccellenza, alla lettura, perché la letteratura frammista allo scorrere dell’esistenza è lì su quel corpo «per un verso piatto, per un altro ondulato», un corpo che prende la forma di chi ci si siede sopra. Si rincorrono tra legno e metallo dalla fusione secolare, le consapevolezze di Ripellino, i versi di Neruda, la rabbia dentro di Jolanda Insana. Intorno alla panchina l’autore scende di casa per scorgere ancora Ilic Uljanov detto Lenin, che viene evocato come una mancanza fisica, al quale però preferisce umilmente presentarsi come Oblomov.
Ed è lì, al capezzale di questa minima metamorfosi metropolitana, che sbocciano gli amori impossibili e vi viene voglia di «rotolarvi tra i rosolacci». È, quello di Panca, un territorio innocente. I ragazzini fanno pipinare ogni giorno dalle scuole vicine, la abitano, la ringiovaniscono. E s’interrogano sulle loro giovani scritture…«A che servono?». Scoprendo che l’utilità della scrittura serve a segnalare un cambiamento del tempo per rapporto a noi stessi. La scrittura è un segnatempo, come eravamo come siamo diventati. Potrebbero, i pischelli, disegnarci sopra o peggio intagliarla da criminali. Ma quel crimine lo commettono quelli delle certezze metafisiche e razziste, le sette che vogliono il silenzio, che se colpiscono con il coltello Panca, «feriscono me». La scena si perpetua sempre sotto gli occhi degli uccelli che popolano i giardini, i lungotevere e i parchi della città diventata senza coscienza e senza punti di fuga, che non siano le panchine che permettono uno sguardo orizzontale che arriva perfino a scoprire la volta del cielo acceso e multiforme con i suoi «cirri di Campari». Nel vociare dei nuovi arrivati carioca, le moltitudini di variopinti pappagalli. Ma siccome le innocenze non esistono più da nessuna parte, la panchina può essere anche il luogo di un inconsapevole delitto, quello di una formichina, o di un ragnetto malcapitati nell’attimo esatto della seduta di una riserva panchinara.
Non c’è trama. La donna con gli occhi di pietra bagnata, i buddisti cattivi, gli scolari caciaroni, il venditore ambulante di pecore, il fantasma di un poeta ribelle, i parenti e i pazienti del vicino Centro di salute mentale che autopromuovono da sé la seduta terapeutica, tutti quanti i personaggi del diario della panchina si danno appuntamento sugli assi di legno senza saperlo ogni giorno. Le vite si incastrano da sole, senza la presunzione del romanziere. Non dimenticando che, nella Nausea di Sartre sotto la panchina dell’io narrante cresce una radice d’albero. Noi alla fine vorremo ringraziare l’autore che sulla panchina ci ha messo la firma: il suo prezioso cappello di Panama. Non si usa nel mestiere del recensore colto. Ma qui, seduti sulle costole di legno sottocasa, non possiamo fare altro che volgere lo sguardo in sorriso al nostro «Viale Carso» che ci è dato vivere.