Capisco che conoscenza e analisi richiedano modalità s-pregiudicate, non prevenute, non viziate da ideologismi; capisco anche che i giudizi debbano essere ancorati a valutazioni di particolari situazioni e possano persino richiedere «realismo». Come sta accadendo qua e là in intellettuali e tecnici di «sinistra» per l’attuale governo, per la compagine che lo regge e per i movimenti e le culture che lo hanno generato.

Capisco anche – e lo provo anch’io – il disagio di chi sente la critica, e l’ostilità, nei confronti di questo governo provenire da pezzi consistenti dell’europeismo neoliberista, da personaggi sostenitori delle compatibilità con l’assetto capitalistico e persino dall’illustre bocconiano presidente dell’Inps.

Ma quello che non capisco è la desertificazione di un punto di vista realmente critico e alternativo: non l’assenza di strumenti dell’ideologia, ma un punto di vista, un orientamento, una bussola.

I giudizi ‘positivi’ specialistici e ‘tecnici’ che vengono fuori – anche su questo giornale – sul cosiddetto decreto dignità mostrano, a mio avviso, la mancanza di un punto di vista generale (non generico).

Mancanza che fa velo al fatto che oggi – come assai bene racconta il manifesto – la questione migranti è la questione: la chiusura dei porti e dei confini, con relativo linguaggio da guapparia, la chiusura nella italianità, la legittima difesa e la propaganda delle armi, la ferocia nella bocciatura della pur timida riforma carceraria, la condanna delle ong del Mediterraneo, gli accordi a sud con la Libia e a nordest con i paesi di Visegrad, tutto questo per chi lotta per un’alternativa sociale, politica, teorica dovrebbe essere la questione.

Qualche miglioria rispetto a Renzi, qualche provvedimento ‘sociale’ non mutano a mio avviso il segno della ferocia istituzionale e del degrado orribile dei parametri nel «senso comune»: qui si diffonde il ‘sospetto’ che i/le migranti vengano a insidiarci sicurezza e averi, dalla villetta a schiera al tozzo di pane; si chiudono occhi e menti (tranne lodevoli atteggiamenti caritatevoli) di fronte ai corpi e alle menti che nulla hanno se non la loro vulnerabilità.

Anche Mussolini bonificò le paludi pontine, istituì i dopolavoro, premiò le mamme, anche Franceschiello dalla carrozza gettava monete per le strade di Napoli ai «lazzaroni».

Qualcuno crede di lottare contro le «rivoluzioni passive» (lo era anche il fascismo per Gramsci) e non riesce a vedere il nocciolo feroce di questo populismo che fa del disagio sociale un’arma non contro il capitalismo neoliberista, ma contro gli sfruttati che approdano alle nostre coste.

Sarebbe utile ascoltare parole e pratiche del movimento trans femminista e intersezionale Non una di Meno: attraverso la loro vulnerabilità le donne, vendute, stuprate, inchiodate al ruolo riproduttivo, rivendicano la libertà di attraversare tutti i confini, quelli geografici, quello della esclusione/inclusione, quello della eteronormatività quello delle identità, maschere e convenzioni sociali e simboliche.

Questione gigantesca, ma è con quest’altezza, io credo, che dovremmo misurarci, non con qualche pillola dei decreti di Di Maio.