Statue solenni cadono dai piedistalli come corpi morti mentre uomini barbuti in gellaba e turbante si accaniscono sui blocchi superstiti per ridurli in polvere. Visi in pietra dai grandi occhi cavi precipitano dalle pareti e si sbriciolano al suolo. In sottofondo, canti patriottici intonati come salmi che stordiscono quanto il rumore delle mazze agitate dai jihadisti.
È questo lo sconvolgente scenario del video diffuso a fine febbraio 2015 dallo Stato Islamico e girato all’interno del museo archeologico di Mosul. Il lugubre trionfo dell’iconoclastia del XXI secolo, che aveva colpito in precedenza l’antica Ninive, non lasciava tuttavia presagire l’implacabile furia contro gli idoli preislamici che di lì a poco avrebbe investito – in un crescendo di violenza – alcuni fra i più splendenti siti archeologici dell’Iraq e della Siria, tra cui Hatra e Palmira. Eppure, malgrado in molti avessero ipotizzato che i manufatti del video fossero soltanto delle copie, la gravità del gesto era già una nefasta profezia.

A DISTANZA DI DUE ANNI, le immagini catturate dalla Associated Press rivelano lo scempio del museo di Mosul, riconquistato ai primi di marzo dalle forze governative. Muri pencolanti, pavimento sfondato, cumuli di indecifrabili macerie in mezzo a pilastri che reggono il nulla. Una desolante devastazione, nella quale si riconoscono i frammenti di un monumentale lamassu (divinità mesopotamica in forma di toro alato androcefalo) abbattuto come una vera e propria fiera.
A testimoniare la storia mutilata del Tigri anche lacerti di iscrizioni in carattere cuneiforme. Benché lo stato dei reperti appaia fin da ora tragico e probabilmente irreversibile, non è ancora possibile stilare un bilancio accurato delle distruzioni, né degli oggetti eventualmente trafugati.

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Foto Reuters

Nato nel 1952, il museo di Mosul era il secondo del paese per importanza. Ampliato negli anni ’70, il suo patrimonio venne arricchito in seguito al progetto politico-culturale di Saddam Hussein, che proprio in quel periodo – puntando all’unità dell’Iraq – aveva predisposto che in ogni museo periferico si potessero ammirare opere provenienti dalle differenti regioni del paese.
Nel 2014, prima dell’arrivo degli uomini del califfo Al-Baghdadi, il museo ospitava quattro sezioni espositive: Preistoria, Islam e mondo Assiro, più una sala dedicata ad Hatra, la magnifica città fondata dai Seleucidi nel III secolo a.C., divenuta un fiorente centro dell’impero dei Parti e infine capitale del primo regno Arabo.

Le statue che rappresentavano i sovrani di Hatra, capolavori di arte sincretica, sono fra le perdite incommensurabili da imputare all’occupazione islamista. Il museo ne conservava una trentina, assieme ad altre sculture di grandi dimensioni che non era stato possibile far rientrare a Baghdad dopo la prima guerra del Golfo, quando i musei sparsi sul territorio nazionale avevano mostrato la loro fragilità difensiva, subendo furti e danneggiamenti.

DALLE NOTIZIE DIFFUSE finora sembra esser andata a fuoco anche la biblioteca del museo di Mosul, sebbene i media parlino impropriamente di un fondo costituito in gran parte da manoscritti. In seguito alla cacciata dei miliziani dello Stato Islamico da Mosul è stata inoltre annunciata una scoperta archeologica, paradossalmente provocata dalla distruzione della moschea del profeta Younis (Giona), avvenuta nel luglio del 2014.

GLI ARCHEOLOGI, che già dal 2004 erano a conoscenza di strutture antiche celate sotto la presunta (e intoccabile) tomba del profeta, hanno potuto constatare che in fondo ai cunicoli realizzati dai jihadisti per far saltare in aria l’edificio, persistono le rovine di un tempio assiro scavato nella roccia.
Sebastien Rey, archeologo a capo del Programma per la gestione emergenziale del patrimonio lanciato dal British Museum in Iraq, bisbiglia che tra i vari manufatti riportati alla luce sono stati individuati due lamassu. Sepolti da secoli nelle viscere della terra, i tori alati posti a custodia di palazzi o templi, riemergono per riprendersi il loro legittimo posto nella Storia universale.
Spetta ora alla società civile irachena, sostenuta dalla comunità internazionale, proteggerli da futuri attacchi.