«Che cosa vi ha tenuti assieme?», ha chiesto giorni fa Antonio Gnoli a Luciana Castellina. E lei di rimando: «La passione intellettuale ed esistenziale per le cose importanti. Fra tutte, l’idea di una società migliore». Potremmo pure fermarci qui. Perché esistono sintesi fulminee capaci di riassumere il percorso di decenni. E Luciana in quelle parole scarne riesce a farlo benissimo. Nel senso che le leggi e comprendi senza fatica cosa spinge una ragazza di novant’anni a non disertare anche questa volta il campeggio dell’Arci a Capo Rizzuto dove va per capire cosa pensa quel migliaio di giovani radunati lì e nati l’altro ieri.

A METÀ GIUGNO ci siamo incrociati per due giorni in una reunion tutt’altro che nostalgica di chi aveva condiviso la Fgci degli anni ’80. L’avevo chiamata settimane prima per chiederle se poteva essere con noi la domenica mattina a riflettere sul mondo di allora e quello di adesso.

NON È VENUTA solo la domenica, ha voluto starci anche il sabato, seguire le nostre impressioni, di Marco Fumagalli e Pietro Folena, insomma capire non già e non tanto chi eravamo stati collettivamente, perché questo lo sapeva meglio di noi, ma cosa quel pezzetto di una generazione era divenuta col tempo. E la domenica, replicando puntuale alle domande di Daniela Preziosi, ci ha ammonito a non disperdere quel residuo vitale di passione, e desiderio di non subire gli accadimenti come sentenze, che tutto sommato ci aveva trascinati fino lì.
Ci ha parlato Luciana quella mattina come si conversa tra compagni, mescolando attualità e memoria. Abbiamo viaggiato con lei per un paio d’ore, lì a bordo Tevere, tra l’Atene di Tsipras e la Cuba di Fidel, e Togliatti, Berlinguer e l’avventura umana e politica proiettata su questa testata. Parabola unica quella sua e dei compagni che l’hanno condivisa a lungo.

LA «GOGNA» di un partito ortodosso dove sarebbe stato Macaluso tra i pochi a non negarle il saluto. Poi il rientro in quella «casa» trasformata, talvolta suo malgrado, dall’urto degli eventi. E dopo ancora, di nuovo una frattura consumata sull’onda dell’89 e della scelta contrastata di Occhetto. Cos’è stato tutto questo e altro ancora? Un saliscendi imprevedibile? O l’espressione cercata e coerente di un filo da riavvolgere in condizioni e contesti lontanissimi tra loro? Uno legge la sintesi citata sopra ed è portato a credere nella seconda cosa. Infarcita di limiti ed errori, magari meno di quelli annoverabili al «partito» lasciato e ripreso e rilasciato, ma un sentiero percorso con qualsiasi tempo senza mai abbandonare la «retta via» o comunque quella che si reputava tale.

E OGGI? COSA RIMANE di un patrimonio simile? Da fuori verrebbe da dire il metodo, la curiosità per i destini del mondo e un’etica del conflitto, quella cosa sepolta da tempo negli scaffali delle biblioteche e invece decisiva se la ricerca è ancora la stessa di sempre, «l’idea di una società migliore».
Guai pensare però che ce la si possa cavare scaricando sugli altri – leader più o meno stagionali e stagionati – le colpe della rimozione. Non ha senso farlo perché la realtà incalza, dura, severa. Ha i volti di un autoritarismo sconosciuto ai più giovani, aggressivo e marcato dai valori di una destra del tutto diversa dall’impronta liberista degli anni novanta e zero. Il che dovrebbe spingere l’élite della sinistra tutta (ché poi non credo sia un ossimoro) a farsi carico dell’emergenza. Vuol dire ricostruire un pensiero sulla contemporaneità, scavare dentro, sopra, attorno ai caratteri del nuovo capitalismo in Occidente, comprendere cosa può derivare da imperi e continenti egemonizzati da capi forgiati a ritenere la democrazia, unitamente all’Europa, il nemico da abbattere.
Ecco, tutto questo forse congiunge in una giornata che spero serena in ogni senso la vita vissuta di Luciana con le vite da vivere dei ragazzi laggiù, in quel campeggio dove ancora, se dio vuole, si immagina la realtà per come non è e per come tante e tanti vorrebbero fosse. Mica è poco. Auguri col cuore, cara Luciana e grazie.