La scorsa settimana una commissione del Pentagono ha autorizzato il rimpatrio da Guantanamo di Mohammed al Qahtani, un saudita che si trova nella prigione militare nell’omonima baia cubana dal 2002.
Nel 2001, prima degli attentati dell’11 settembre, al Qahtani era stato respinto al controllo passaporti dell’aeroporto di Orlando. Quando si era scoperto che ad attenderlo ci sarebbe stato Mohammed Atta, capofila degli attacchi, al Qahtani era stato considerato il “ventesimo uomo” che avrebbe dovuto partecipare al dirottamento del volo United 93. Catturato in Afghanistan nell’autunno del 2001, era stato trasferito a Guantanamo, ma al Qahtani era anche un giovane squilibrato che aveva subito un trauma cerebrale e diagnosticato come schizofrenico. La sua condizione mentale è definitivamente deteriorata dopo che gli aguzzini di Camp X Ray lo hanno sistematicamente torturato nel 2002 e 2003 nella capanna adibita alle «interrogazioni maggiorate». Nei successivi vent’anni al Qahtani che non comunica più ed è terrorizzato dagli agenti, ha tentato numerose volte di togliersi la vita – e questi due decenni ci sono voluti perché la commissione riconoscesse che il detenuto disabile «non costituisce più un pericolo imminente per gli Stati uniti».

IL SUO CASO ha riportato per l’ennesima volta l’attenzione sulla guerra al terrorismo e su di un luogo simbolo del conflitto più lungo della storia americana, che perdura anche dopo il ritiro dall’Afghanistan. Il campo di prigionia, posto fisicamente e simbolicamente fuori dai confini nazionali e da ogni garanzia costituzionale e umanitaria è rappresentazione fisica di una guerra extra legale che a gennaio ha celebrato un triste ventennale.
Dei 38 detenuti che rimarranno rinchiusi a Guantanamo, se al Qahtani verrà effettivamente rispedito in Arabia Saudita, 12 sono, almeno sulla carta, anch’essi autorizzati al trasferimento. 14, i cosiddetti prigionieri perpetui, sono detenuti senza capo d’accusa fuori da ogni legittima procedura penale, ed altri 12 sono stati “rinviati a giudizio” da tribunali militari il cui iter rimane impantanato in un dedalo procedurale apparentemente infinito per una principale causa: le imputazioni sono fondate su testimonianze e confessioni estratte con al tortura e quindi non ammissibili come prove. Languono dunque in una terra di nessuno legale che rappresenta – ancor più della disordinata ritirata da Kabul – la sconfitta morale americana.

DEI 780 PRIGIONIERI passati per Guantanamo durante questi vent’anni, 731 sono stati rilasciati o trasferiti e nove sono morti in prigionia. Appositamente classificati come enemy combatants per porli al di fuori sia dallo stato di diritto che dai trattati internazionali sui prigionieri di guerra, quasi tutti sono dunque risultati innocenti rimanendo comunque per lunghi anni prigionieri del paradosso che li riteneva «troppo poco innocenti e non abbastanza colpevoli» ad insindacabile discrezione del Pentagono o della Cia. Spesso si è trattato di persone incappate nelle retate delle forze d’occupazione americane, a volte per essere stati combattenti o simpatizzanti dei mujaheddin inizialmente sostenuti dagli stessi Usa contro i talebani. Talvolta semplicemente vittime delle delazioni lautamente retribuite e quindi proporzionalmente inaffidabili. Altri semplicemente si sono trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato, danni collaterali di una guerra in gran parte sommersa.

QUASI TUTTI quelli che Donald Rumsfeld aveva definito «i peggiori dei peggiori» sono dunque risultati molto presto innocenti. Lo stesso George Bush – sollecitato da un paio di sentenze della Corte suprema – aveva finito per rimpatriare 532 detenuti. Obama, succedutogli con la promessa di chiudere il campo, aveva firmato un decreto esecutivo in questo senso il giorno del suo stesso insediamento. Il suo tentativo di trasferire molti dei detenuti al sistema penale nazionale è stato bloccato dal congresso repubblicano che ha varato una legge che vietava di portare qualunque imputato di terrorismo in territorio americano – un modo per mantenere alta la psicosi del «pericolo imminente». L’alternativa era il rimpatrio spesso però problematico verso zone di guerra o paesi destabilizzati.

COME HA SCRITTO di recente Lee Woloski, designato da Obama a responsabile del decommissionamento, per svuotare il campo gli Usa hanno intrapreso fitti negoziati (e spesso baratti in cambio di armi o aiuti finanziari) con molti paesi alleati, specie se deboli o poveri. Fra le centinaia di rimpatri avvenuti in era Obama c’è stato quello di Mohamedou Ould Slahi in Mauritania (il suo caso divenuto celebre per l’autobiografia ed il film che ne ha tratto Kevin Macdonald: The Mauritanian). E hanno compreso il trasferimento degli ultimi tre (di 12) prigionieri uiguri finiti nelle maglie americane dopo aver rifuggito in Afghanistan la repressione subita nello Xinjiang ad opera delle autorità cinesi. Resi sostanzialmente apolidi dal gulag dove hanno passato 12 anni, sono infine stati spediti in Slovacchia nel 2013.

NEL RACCONTO fatto sul sito Politico, Woloski fa anche un’altra considerazione: «Se questi detenuti fossero stati bianchi anziché neri o bruni, qualcuno crede che uno stato di diritto come gli Usa li avrebbe imprigionati senza imputazione per decenni? Davvero non lo credo». Woloski formula infine un’idea che ormai è acquisita da un numero sempre maggiore di legali e politici, nonché da molti militari: che la stessa extra legalità intrapresa dagli architetti della war on terror e dagli avvocati ingaggiati per sdoganare la tortura come “male necessario”, hanno finito per impedire che gli «Usa possano mai sperare di ottenere la giustizia che nominalmente cercavano». Assicurando invece al contempo che fosse azzerata ogni credibilità morale nel conflitto. I forever prisoners sono bloccati in un diabolico comma 22 in cui non possono essere processati da tribunali a causa delle torture subite, né trasferiti a tribunali civili per via della legge vigente, né liberati.

ALLO STESSO TEMPO la loro detenzione extra legale diventa sempre più insostenibile. «Su Guantanamo e sulla tortura ormai sono stati girati grandi film di Hollywood», ha di recente dichiarato Moazzam Begg, un cittadino britannico di origini pakistane detenuto per tre anni a Cuba e nella base americana di Bagram, dove è stato testimone oculare dell’uccisione di due detenuti picchiati dalle guardie americane. Begg, finito nel gulag per aver sostenuto al causa dei musulmani in Bosnia durante la guerra balcanica e lavorato da volontario in campi profughi in Afghanistan, è stato rilasciato nel 2005 dopo l’intercessione del governo inglese, da allora ha costituito un’associazione di ex detenuti che ha in una lettera aperta a Biden ha chiesto nuovamente la chiusura definitiva dell’ultimo lager. «Ci sono stati attori nominati all’Oscar per aver rappresentato la nostra sofferenza», ha detto alla radio Npr, «eppure quei desaparecidos sono ancora là, dietro il filo spinato».
Per custodire quegli ultimi 38 prigionieri gli Usa impiegano uno staff di 1500 fra militari e contractor al costo di 500 milioni di dollari l’anno. Ma è il costo morale ad essere davvero insostenibil