Quattro versi, recitati come una litania di redenzione – «Noi vi amiamo, non piangete./ Il dolore mangia il tempo./ Siate pazienti./ Il tempo mangia il dolore» – vengono accolti nella grande scena finale di LaRose, l’ultimo romanzo di Louise Erdrich (traduzione come sempre impeccabile di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, pp, 455, euro 20,00, ) e concentrano in sé i grandi temi che scorrono in pagine di una densità e potenza non frequenti nella narrativa contemporanea.
Il dolore del lutto, che mangia il tempo di chi soffre, impedendogli qualunque riscatto o liberazione; la forza quanto meno lenitiva dell’amore; l’idea che solo il lento scorrere dei giorni, se assecondato e non contrastato, possa progressivamente cancellare la disperazione di una perdita: sono queste le coordinate emotive da cui muove narrazione, e che ne occupano stabilmente il centro. In LaRose, come nel precedente, magnifico La casa tonda – premiato con il National Book Award – Erdrich sceglie di abbandonare, almeno in apparenza, la densità stratificata, la continua variazione del punto di vista e il costante alternarsi di livelli temporali che avevano contraddistinto la sua produzione fin da Medicina d’amore, il romanzo con il quale aveva esordito nel 1984 e che aveva indotto la critica ad accostarla a maestri come Faulkner e García Márquez.

Si parte da un antefatto semplice quanto traumatico: in un giorno qualunque, alla fine o quasi dello scorso millennio, Landreaux Iron, un uomo perbene, fisioterapista amato e rispettato nella riserva ojibwe del North Dakota dove vive ormai da anni, sta dando la caccia a un cervo che ha avvistato e del quale segue le mosse da tempo. Ma proprio quando ha la preda sotto tiro e si decide a premere il grilletto, sulla traiettoria si palesa il piccolo Dusty, figlio di Peter ma soprattutto di Nola, che è anche la sorellastra di Emmaline, moglie di Landreaux. Colpito in pieno dal proiettile, Dusty muore: per porre rimedio al danno provocato, ma soprattutto per lenire il dolore della famiglia e ricomporne l’armonia, Landreaux decide di «cedere» a Peter e Nola il proprio figlio più piccolo, LaRose.

La trama del romanzo, in fondo, è tutta qui: con una penetrazione psicologica e una equanimità di sguardo ammirevoli, Erdrich esamina le conseguenze del lutto e del tentativo di riparazione su due coppie legate da amicizia e parentela, ma separate da un evento tanto casuale quanto crudele, che mette a dura prova gli equilibri e gli affetti, alimentando risentimenti quando non odi autentici. L’analisi viene poi estesa dai quattro genitori ai figli: la sorella maggiore di Dusty, Maggie, ribelle e insofferente a qualunque regola, affascinata da LaRose e dalla sua naturale, luminosa bontà, ma al tempo stesso incattivita dall’affetto che questo nuovo membro della famiglia scatena in sua madre, della quale diviene il protetto e il preferito; i quattro fratelli Iron, cui LaRose viene sottratto e che proseguono nelle loro esistenze in fondo serene, pur costretti a fare i conti con la disperazione di Landreaux, ossessionato dai sensi di colpa, e di Emmaline, che non riesce più ad assolvere le sue funzioni di insegnante e pilastro della comunità, devastata da un abbandono imposto dal destino e da quelle stesse tradizioni che contribuisce in ogni modo a preservare.

Se ai dieci componenti dei nuclei famigliari si aggiungono gli altri due, straordinari personaggi di cui Erdrich cesella il ritratto in pagine che rasentano la perfezione – padre Travis, il sacerdote reduce di guerra che aveva già recitato un ruolo tutt’altro che secondario in La casa tonda, e Romeo, il paria del villaggio, che vive raccattando medicinali scaduti e coltivando un odio antico e forsennato nei confronti di Landreaux, suo compagno di avventure in gioventù –, il quadro che ne emerge è già sufficiente a rivelare quella che è la prima, immensa qualità di LaRose: la ricchezza e coralità dell’impianto, l’ampiezza e la profondità dell’analisi psicologica, degna dei migliori modelli ottocenteschi. Ma Louise Erdrich ha in mente anche altro: tenendo pienamente fede a quello che è sempre stato il nucleo più profondo della sua poetica, allarga il proprio sguardo a un’intera comunità, quella nativa americana, in perenne e fertile sospensione tra la tradizione e la modernità, tra il tribalismo e il cattolicesimo, tra lo spiritismo e il materialismo. Non perde mai di vista il contesto più ampio di un paese che, nei quattro anni circa in cui si svolge il romanzo, passa dagli oscuri e immotivati timori per l’avvento del nuovo millennio alla tragedia dell’11 settembre e alla catena di menzogne che conduce al conflitto in Iraq; non disdegna però incursioni nel passato più remoto, che ci conducono fino al cuore dell’Ottocento, narrando le sopraffazioni e i tentativi di integrazione forzata cui un intero popolo è stato costretto a sottostare e cogliendo in esse le radici di un dolore più grande ancora di quello dei protagonisti: il dolore di una comunità intera, sospesa tra l’accettazione di una modernità imperfetta e il tentativo di preservare o recuperare le proprie radici.

Se La Rose, anziché essere solo un esempio, per quanto pregevolissimo, di narrativa psicologica, rappresenta un vero e proprio romanzo-mondo, è forse perché i suoi veri protagonisti, dietro la folla di personaggi magistralmente tratteggiati che lo popolano, sono i demoni. Privati e personali, prima di tutto: i demoni del dolore e del lutto, che lasciano Nola, alla vigilia del primo Natale con LaRose in casa, quasi paralizzata, perché «Dal piombo che aveva in petto le colava piombo fuso nelle vene, bloccandole pian piano la circolazione».

Ma anche i demoni collettivi, che Randall, amico di Landreaux ed erede degli antichi sciamani, deve sfidare, a nome e per conto dell’intera comunità: «Combattere i demoni, questo era il suo lavoro. Smarrimento, dislocazione, malattia, dipendenza, e il sentirsi, come tanti, solo i resti cenciosi di un popolo con una storia complessa».

In questo perfetto bilanciamento tra dolore privato e pubblico, che trova la sua più compiuta realizzazione nel personaggio che dà il titolo al romanzo, Erdrich raggiunge il suo scopo più alto: esaltare la capacità di sopravvivere, passando «attraverso tubercolosi, difterite, sofferenze, una serie infinita di tè, di storie magiche, sconce, spassose, sacre e profane», che è di una famiglia e di un popolo intero.

Nel 1891, Frank Baum, l’autore di un classico per l’infanzia come Il mago di Oz, aveva scritto: «La nostra unica sicurezza dipende dal totale sterminio degli Indiani. Avendoli trattati ingiustamente per secoli, sarebbe meglio, per difendere la nostra civiltà, fargli un ultimo torto cancellando dalla faccia della terra queste creature indomite e indomabili». E le parole di Baum vengono riportate letteralmente in una delle pagine più belle di LaRose: sono infatti entrate a far parte di quell’immenso giacimento di ritagli, testimonianze scritte e orali, oggetti e pipe sacre, che la comunità al centro del romanzo si tramanda da generazioni, nello sforzo di mantenere intatto un patrimonio nel quale libertà e sopraffazione, brutalità e magia, miracolosamente coesistano.