Tanti anni fa circolava, nel mondo del rock, una forte polemica: c’era chi era sconvolto dalla bellezza delle scenografie dei mastodontici tour delle band di punta, sempre più tecnologici, colorati, futuristi, esagerati; e chi, al contrario, non ne poteva più di questi spettacoli ipercinetici, li condannava, dicendo che la musica stava lentamente passando in secondo piano a favore di scenografia bizzarre e all’avanguardia. Oggi siamo quasi al paradosso, la musica quasi non si ascolta più, tanto il fenomeno sta diventando un’insieme di tecniche e modi di agire che si esprimono prima e dopo la musica stessa. Intorno ad essa e mai su di essa. Frank Ocean è esattamente il prototipo di questo modo nuovo (per certi versi già obsoleto, cotto) concetto di musica attuale. Per quattro anni è circolata la voce dell’arrivo sulla terra del suo nuovo, atteso secondo album. Quasi quanti ne passano dal primo liceo alla maturità.

Nel 2012 il suo esordio (folgorante Channel Orange), l’anno dopo già si parlava del sequel e nel 2014 sembrava pronto. Per un anno silenzio assoluto, poi a un certo punto sembrava quasi ci fossimo per davvero, era più o meno l’estate del 2015 ma poi niente ancora. Si sapeva anche il titolo, diceva qualcuno, Boys Don’t Cry. Finché ci si è svegliati in questa piena estate ed ecco su itunes un bel filmato musicale di tre quarti d’ora, Endless, contenente 18 nuovi pezzi del ventottenne di New Orleans che ha iniziato facendo il ghostwriter per Justin Bibier e John Legend. Un’attesa lunghissima, una passione vera e propria per tutti i suoi fan. Il visual album però ha tre facce. La prima è quella dei fan, scatenati, in delirio; la seconda è quella dei critici: queste tracce regalano una voce labile e molto, troppo filtrata, i pezzi sono frammenti di storie, note e tanti silenzi. Non convince, a parte una bella cover di At Your Best (You Are Love degli Isley Brothers. La terza è quella di Ocean e dei suoi manager: sembra che il lavoro sia esclusivamente un escamotage per dribblare il contratto discografico con Universal e permettere al suo staff di produrre e distribuire l’altro disco, quello ufficiale, senza intermediari. Infatti inizia a circolare in giro la voce che non sia questo il suo secondo disco ufficiale.

E in effetti, un paio di settimane dopo arriva all’improvviso Blonde (alcuni lo scrivono Blond perché anche qui c’è lo zampino di esperti di marketing all’arrembaggio). Un parterre di ospiti incredibile, finalmente ci siamo. Persino il titolo non è quello che si pensava; attenzione però, Boys Don’t Cry è qualcosa nella mente di Frank Ocean, oltre alla label che produce il lavoro, un magazine d’arte patinato con cd dentro, che il New York Times definisce «un’elaborata rivista di arte», distribuita gratuitamente in quattro temporary store che hanno aperto a New York, Los Angeles, Chicago e Londra, compreso un alimentari di Manhattan, quello dove mettono la birra nella busta di carta.

Il primo giorno, siamo a metà agosto e persino di sabato, la fila alle 7 di mattina arriva due isolati più giù. Tutto molto bello. E la musica? Non importa molto, la tecnica artistica è roba per pochi eletti, il concetto della creazione, la ricerca, la sfida, sono paranoie alla Walter Benjamin, molto più importante la riproduzione, la trasmissione di un involucro, anche se il contenuto scricchiola, si fa attendere ma quando arriva non brilla. Eppure dentro ci sono Beyoncé, Pharrell Williams, Kendrick Lamar, persino Johnny Greenwood dei Radiohead a partecipare a questo concentrato di R&B, gospel e hip hop. Che però, invece di diventare i suoi amici, i compagni di viaggio, qui sono quasi dei demoni potenti. Tutti molto più potenti di lui.