Con il voto per il bilancio del 2018 in scadenza alla fine della settimana, il Congresso degli Stati uniti ha bisogno di far passare una misura di spesa, anche temporanea, per evitare che sabato venga lanciato uno shutdown, vale a dire il blocco di tutte le attività amministrative.

Si tratta di una procedura del sistema politico Usa che coinvolge il settore esecutivo e viene attuata ogni qual volta il Congresso non riesce ad accordarsi per approvare la legge di rifinanziamento delle attività amministrative.

Lo shutdown è lo spauracchio di ogni amministrazione: i dipendenti entrano in congedo non retribuito; parchi pubblici, musei e monumenti vengono immediatamente chiusi; viene sospesa l’ammissione di pazienti nei centri di ricerca medica; dopo dieci giorni molti processi civili vengono sospesi e rinviati; la Nasa deve ridurre al minimo il numero di impiegati, mantenendo solo quelli delle missioni in corso; vengono sospesi alcuni servizi di assistenza ai veterani; e vengono ritardate molte richieste di finanziamento di piccole imprese e privati che prevedono agevolazioni statali.

L’approvazione di questo bilancio per i democratici rappresenta un’occasione per proteggere centinaia di migliaia di Dreamers, persone entrate illegalmente da minori negli Usa e protette dall’espulsione tramite una misura dell’era Obama. Per questa ragione vogliono includere nella finanziaria la trattativa che li riguarda, mentre il Gop vorrebbe separare il destino dei Dreamers dai finanziamenti al governo.

Dal canto suo Trump ha dichiarato che l’accordo su i Dreamers è «probabilmente morto», spiegando su Twitter che «i democratici non lo vogliono davvero, vogliono solo parlare e portare via il denaro disperatamente necessario al nostro esercito».

Dopo la decisione di qualche giorno fa del giudice federale della California, Trump comunque sembra aver cambiato idea: ha annunciato che il programma di protezione dei Dreamers sarà riesumato e verranno nuovamente accettate le richieste «fino a ulteriore comunicazione».

Ma il dibattito è stato oscurato dalle domande sulle sue opinioni razziste. A seguito delle pesanti affermazioni di The Donald, che ha definito El Salvador, Haiti e tutto il continente africano shithole, si è alzato un coro pressoché unanime per additarlo come razzista.

Ma lui non si sente tale. «Non sono razzista. Posso dirvi questo, sono la persona meno razzista che abbiate mai intervistato», ha affermato dal suo golf club di Palm Beach, in Florida, rivolgendosi ai giornalisti per rispondere alle accuse arrivate da tutte le parti.

Trump ha anche smentito del tutto di aver usato espressioni offensive nei confronti di Haiti e dei Paesi africani: «Avete visto cosa hanno detto vari senatori presenti a quell’incontro?», ha domandato Trump ai giornalisti, facendo riferimento a due senatori che, a differenza di quelli che avevano fatto scoppiare lo scandalo, hanno affermato di non aver sentito Trump pronunciare quelle espressioni razziste.

Alle domande riguardo la crisi coreana Trump è stato possibilista: «Vedremo che succede con la Corea del Nord, abbiamo grossi colloqui in corso. Le Olimpiadi di cui sapete. Molte cose possono accadere».

E sul falso allarme nucleare delle Hawaii, non abbastanza importante da fargli twittare qualcosa a riguardo, Trump ha detto che «è stata una questione che riguarda lo Stato delle Hawaii, hanno commesso un errore e si sono assunti la piena responsabilità. Speriamo non accada più e faremo in modo di risolvere il problema così che non ci sia gente troppo in allarme e con i nervi tesi».

Molti commentatori americani, però, vedono le recenti esercitazioni militari Usa come la prova che Washington si stia preparando per «l’ultima spiaggia», nonostante il segretario alla Difesa Mattis e il generale Joseph Dunford Jr., presidente del Joint Chiefs of Staff, ripetano di voler affrontare le ambizioni nucleari nordcoreane con la diplomazia.