«A rischio di incostituzionalità». Il giudizio è praticamente unanime, in Piazza Montecitorio dove decine di associazioni e formazioni politiche si sono date appuntamento per contestare i decreti legge Minniti-Orlando, mentre i deputati in Aula votavano la fiducia. Entrambi – quello sull’immigrazione, che oggi verrà convertito in legge con l’ultimo voto della Camera, e quello sulla sicurezza urbana che è passato all’analisi del Senato – violano i principi stessi su cui fonda lo Stato italiano, secondo molti militanti delle organizzazioni che hanno aderito al sit-in, tra le quali Antigone, Arci, Asgi, Acli, Cgil, Cisl, Cnca, Fondazione Migrantes, Legambiente, Libera, Lunaria, Medici senza frontiere, Radicali italiani, Rifondazione comunista, Sant’Egidio e Sinistra Italiana.

A cominciare dalla necessità e dall’urgenza che hanno motivato la forma dell’atto normativo. Ma di punti «deboli», costituzionalmente parlando, i provvedimenti di Minniti e Orlando ne hanno molti. Basti pensare al «Daspo urbano» applicato anche il 25 marzo scorso a Roma per fermare preventivamente alcuni manifestanti «per l’altra Europa» provenienti dalla Val Susa e dal Nord-est, «che viola l’art.21 sulla libertà di espressione del pensiero». O alla riforma dell’iter per il riconoscimento dello status di rifugiato, resosi necessario, secondo il legislatore, a causa dell’intasamento di alcuni tribunali, quelli su cui insiste la competenza delle commissioni che vagliano le richieste di asilo. Per intenderci, nel Lazio tutti i ricorsi degli aspiranti asylanten gravano solo su quella decina di magistrati della Prima sezione del Tribunale di Roma. «Ma il ministro Orlando, invece di cambiare le competenze e distribuire sul territorio questo carico di lavoro, ha deciso di semplificare l’iter a scapito di molti diritti costituzionali», spiega l’avvocato Stefano Greco, della Casa dei diritti sociali.

Andando nei particolari del «decreto immigrazione», il primo punto è la giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo davanti alle Commissioni (le cui sedute saranno d’ora in poi videoregistrate e i cui verbali saranno informatizzati) che, secondo il ministro Orlando, permette di evitare il secondo grado di giudizio nel caso di ricorso davanti a un giudice. «In questo modo, si viola l’articolo 111 secondo il quale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo” – spiega ancora l’avv. Greco – che vuol dire contraddittorio tra le parti, parità, e un giudice terzo e imparziale. Davanti alle commissioni invece il richiedente asilo è solo, senza un avvocato e posto dinanzi ad un dipendente del Ministero dell’Interno. In sostanza, si fa confusione tra i poteri dello Stato, sostituendo in questo caso quello giudiziario».

Se c’è diniego, poi, si hanno solo 30 giorni per trovare un avvocato, preparare e depositare il ricorso. E, se in seconda istanza si vuole fare ricorso in Cassazione, per un giudizio di legittimità, il tutto va ripetuto, compresa la delega all’avvocato (norma particolare, si badi bene, applicata solo ai richiedenti asilo). Ma come si forma il giudizio del tribunale di primo (e unico) grado? «Prima il giudizio si formava anche con l’ausilio di prove e testimonianze, la cosiddetta “cognizione piena” – ricorda Greco – poi con l’ultimo governo Berlusconi, nei cui piani c’era la semplificazione che sta portando in porto Orlando, si è passati alla “cognizione sommaria”, ossia un processo sostanzialmente documentale ma che poteva essere trasformato, al bisogno, in rito “pieno”, arricchendo il dibattimento con testimoni e prove. Con questo decreto invece si va oltre: si applica l’art. 737 del Codice di procedura civile, quello usato per le cause senza contenzioso, dove non c’è udienza, non c’è dibattimento, non c’è comparizione delle parti. Il giudice può non incontrare mai né il richiedente asilo, né il suo avvocato: visiona la registrazione della commissione e decide. Ed è la prima volta che ciò avviene in Italia in materia di diritti fondamentali della persona».