Dall’inizio degli anni Settanta (o, se si preferisce, dalla fine del sistema di Bretton Woods nel 1971), gli Stati Uniti hanno sostenuto la domanda mondiale indebitandosi senza sosta col resto del mondo. In pratica: i Paesi creditori (oggi prevalentemente Giappone e Cina) finanziano i consumi degli americani.

E lo fanno utilizzando parte dei loro surplus commerciali per comprare debito pubblico a stelle e strisce. Più o meno, ma a parti rovesciate, quello che è accaduto in Europa tra la Germania e alcuni Paesi del sud (Grecia in primis) fino allo scoppio della crisi.

È da qui che bisogna partire per comprendere la nuova politica sui dazi portata avanti da Trump. Per dare l’idea delle grandezze di cui stiamo parlando, basta ricordare che negli ultimi trent’anni gli Stati uniti hanno accumulato oltre 10mila miliardi di dollari di disavanzi commerciali (per una media di 700 miliardi all’anno dall’inizio degli anni 2000), con un debito pubblico che, ormai, ha sfondato il tetto dei 20mila miliardi.

Intendiamoci: la posizione (politica e militare) degli Stati Uniti nel mondo costituisce una garanzia anche per la sostenibilità del suo debito (diverso è il discorso del debito privato). Il problema è capire se questo modello sia sostenibile per quella che genericamente chiamiamo economia reale (o produttiva). D’altronde: se la bilancia commerciale è in rosso, significa che il valore monetario dei beni stranieri consumati dagli americani è superiore a quello dei beni che le imprese americane esportano all’estero.

Un problema non nuovo, beninteso, che già in passato aveva provocato frizioni nei rapporti commerciali tra gli Usa ed il resto del mondo. Dopo l’ultima crisi, la questione è tornata però con prepotenza nel dibattito pubblico americano ed è stata alla base del successo di Trump tra i ceti popolari alle scorse presidenziali (vale la pena ricordare il caso degli operai del Michigan e dei minatori del Kentucky).

Dall’Europa questa virata protezionistica Usa è vista con grande preoccupazione. Euro forte e dazi draconiani all’ingresso del mercato statunitense potrebbero infatti mandare in tilt un’economia continentale sempre più schiacciata sul paradigma mercantilista.

Per l’Italia, il cui export sta vivendo un momento d’oro, i danni potrebbero essere ancora maggiori, vista la debolezza della domanda interna e la modesta crescita del Pil. Ecco perché la risposta dell’Unione Europea non si è fatta attendere.

All’annuncio di dazi su acciaio e alluminio da parte di Trump, è seguita subito la minaccia di ritorsione su alcuni prodotti americani, dal whisky ai jeans, dai succhi d’arancia alle motociclette, oltre ad una diffida da presentare al Wto. E un certo effetto c’è stato, visto che alcuni colossi industriali hanno già scritto una lettera all’inquilino della Casa Bianca per chiedergli di soprassedere alle sue decisioni.

Il timore, più che fondato, è che le stesse possano rivelarsi un boomerang, penalizzando proprio quei settori dell’economia che si vorrebbero in qualche modo tutelare, come fanno sapere, ad esempio, dalla storica fabbrica di motociclette del Wisconsin Harley-Davidson. Un’idea condivisa certamente dal banchiere Gary Cohn, capo dei consiglieri economici di Donald Trump e padre della recente riforma fiscale, che, sul punto, ha deciso addirittura di rassegnare le dimissioni.

E la Cina? «La Cina non vuole una guerra commerciale con gli Stati Uniti, ma assolutamente non resterà ferma a guardare, mentre i suoi interessi vengono danneggiati. Prenderà le misure necessarie», è stato il monito di Zhang Yesui, portavoce dell’Assemblea nazionale del Popolo. Ma, in questa prima fase, Pechino mostra prudenza (non ha fatto liste di prodotti americani), anche perché ci sono di mezzo un surplus commerciale rispetto agli Usa che nel 2017 ha toccato la bellezza di 275 miliardi di dollari (più alto di quello che la Germania può vantare verso il mondo intero) e 1200 miliardi di Titoli di Stato che, per ora, valgono più di qualsiasi altro deterrente.

Il problema è a monte, ben oltre lo stato della bilancia commerciale. È il modello iper-consumistico che sta corrodendo, anche nell’anima, la società. Basti pensare che oggi le famiglie americane sono più indebitate che alla vigilia della grande crisi (13mila miliardi di dollari, il 75% del Pil) e che un decimo del debito grava sulle spalle degli studenti. È da qui che l’Amministrazione Usa dovrebbe partire, prima che una nuova bufera si abbatta sul Paese.