Pubblicato di recente da DeriveApprodi, Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente di Didier Fassin (pp. 308, euro 25) , è un libro importante: una sua lettura critica può rivelarsi utile per orientarsi in questa singolare congiuntura politica. Il testo si propone come l’esito di una riflessione di tipo genealogico-foucaultiano sulle «tecniche e procedure destinate alla guida degli uomini», e ci invita a scorgere una geografia mondiale del governo dei viventi.
Questa nuova «razionalità di governo», prodotto della progressiva affermazione nella sfera pubblica occidentale di una soggettività politica collettiva fondata sul «dispiegamento di sentimenti morali», viene letta da Fassin come parte di uno sviluppo intrinseco alla tradizione filosofica occidentale – cristiana e liberale – la quale avrebbe cannibalizzato l’articolazione del politico sino a cristallizzarsi in quello che egli definisce «governo umanitario». Un dispositivo che è dunque abbordato come una variante endogena della biopolitica. In questa «genealogia», la «ragione umanitaria» viene considerata come una tecnologia metamorfica che, non limitandosi affatto a strutturare le logiche istituzionali, comprenderebbe anche le motivazioni da cui prende le mosse gran parte dell’agire politico contemporaneo. Ma quali sono le implicazioni di questo slittamento nella grammatica contemporanea del politico? Ed è davvero possibile ridurlo a quella che l’autore definisce come un’economia morale?
Come evidenziano le svariate «emergenze» degli ultimi anni, il discorso umanitario necessita da un lato di-mostrare la presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario caritatevole, dall’altro di spostare l’attenzione dalla struttura a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale è possibile riconoscerci sulla base di una presunta unità del genere umano.

SI TRATTA DI UN’ECONOMIA dello sguardo, in cui all’analisi delle cause si sostituisce una cura degli effetti, che comporta quella che potremmo definire una feticizzazione dell’ordine politico, considerato come una semplice cornice dell’evento. La logica umanitaria, spogliando gli eventi di ogni specificità storica e politica, riproduce non solo lo stato d’emergenza da cui viene legittimata, ma soprattutto le condizioni strutturali di disuguaglianza entro cui si iscrive. L’essenza di questo dispositivo di governo risiede quindi nella sostituzione del vecchio lessico della politica (lotta, sfruttamento, dominio, diritti), con una grammatica discorsiva di tipo morale organizzata attorno alla «compassione», alla «sofferenza» e alla «solidarietà». A tale grammatica si accompagna un’enunciazione che presuppone un rapporto gerarchico in cui un soggetto parlante designa in modo «sovrano» la verità di un soggetto subalterno nei termini della vittima da rappresentare. Un meccanismo, dunque, perverso e coloniale attraverso cui l’apparato umanitario cancella costantemente «il volto dell’altro», per riprendere un’espressione di Lévinas suggerita nel testo, e che opera ogniqualvolta, dinanzi alle rivolte che interpellano l’intero circuito dell’accoglienza (a Cona come ad Aversa), le lotte vengono diluite nella grammatica melliflua del sofferente, rendendole altresì disposables a qualsiasi utilizzo: economico, ma anche politico. Si potrebbe dire che è qui che risiede buona parte della colonialità dello stesso sistema d’accoglienza europeo.
Sebbene queste dinamiche siano ben descritte, Fassin ne de-politicizza il significato e, indossando la veste dell’antropologo «imparziale», le interpreta attraverso una rivisitazione del concetto di «economia morale» di E. P. Thompson. La ragione umanitaria è così ridotta a una concrezione di norme, svuotata di ragion d’essere.

TUTTAVIA, SE È CHIARO che ci troviamo permeati da un ordine del discorso dominato dall’empatia, è altrettanto chiaro, a nostro avviso, come «il governo umanitario», per quanto riguarda le migrazioni, sia indissociabile dalla mercificazione del sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione economica e di messa al lavoro della stessa figura del «bisognoso d’aiuto» entro il regime di controllo della mobilità.
Siamo qui di fronte a delle forme di accumulazione per spossessamento che agiscono attraverso l’espropriazione della soggettività stessa dei soggetti: un’economia politica morale, piuttosto che un’economia morale. Fassin non vede dunque in che modo l’umanitario sia diventato una macchina di rendita e di profitto.
D’altronde, questa sua lettura più «antropologica» che «politica» dell’umanitarismo gli permette di ignorarne l’interdipendenza con i processi di securitizzazione, finendo per proporre una critica dal di dentro che ne valorizza comunque il ruolo di contrappunto etico alla produzione governamentale di vite di scarto. Un approccio che ben si salda alla mancata problematizzazione dello stesso concetto occidentale di «umano», ovvero dei suoi limiti razziali.

COMPIENDO LO STESSO gesto che descrive, Fassin delinea una storia in cui l’unica soggettività è attribuita all’Occidente, dove gli «altri» sono ridotti alla figura della pura oggettualità a cui viene gentilmente concesso di entrare a far parte dei confini dell’umano. Nell’impianto dell’autore non c’è spazio per la storia delle rivolte razziali, delle insorgenze antischiaviste e anticoloniali che hanno rovesciato e lavorato nelle crepe del lessico dei diritti dell’uomo. Le omissioni di Fassin – in linea con l’autoreferenzialità del repubblicanesimo francese – si mostrano qui come un altro sintomo di una rimozione costitutiva nella narrazione bianca della storia. Non stupisce, allora, di trovarsi confrontati a una genealogia del vocabolario filosofico morale che, al di là di una polifonia solo apparente, si rivela come una sorta di monologo del Padrone bianco.

AD OGNI MODO, Ragione umanitaria resta un testo importante alla luce del presente. Senza sminuire l’importanza della lotta per cercare di salvare vite umane, a noi pare che un posizionamento acritico dalla parte dell’umanitario sia politicamente poco produttivo. Il lessico «banalmente» umanista, che non chiede altro che ospitalità e accoglienza, si traduce in una politica in cui il rapporto alla subalternità è difficilmente distinguibile non solo da quello del missionario, ma anche dal management razzista delle migrazioni. Si tratta di un regime di controllo che fonde securitarismo e umanitarismo come parte, non solo di un’unica «economia politica morale di gestione», bensì di una tecnologia razzista di produzione di territori e popolazioni.
L’attuale sistema di accoglienza si iscrive all’interno di un «razzismo istituzionale» che va ben oltre il salvataggio in mare e che si estende anche al tanto decantato sistema Sprar: è quanto mostra chiaramente, per esempio, il recente assassinio razzista di Soumalya Sacko, avvenuto in una condizione di segregazione istituzionalizzata. A tal proposito, seguendo alcune riflessioni di Derrida cui Fassin fa un fugace riferimento, dobbiamo tenere presente quanto il linguaggio dell’ospitalità, presupponendo l’Ipseità, sia indissociabile non solo dalla violenza securitaria, ma anche dalla logica estrattiva del capitalismo neoliberale: l’ospite è necessariamente confinato nella sua condizione di straniero, di indesiderabile, di soggetto razzializzato.

SE DUNQUE, come sostenuto altrove da D. Ferreira Da Silva, la figura razzializzata dell’essere umano svolge oggi un ruolo etico indispensabile ai processi di valorizzazione del capitale globale, ci sembra allora importante problematizzare un repertorio politico che, a volte, rischia di ridurre la questione a un problema di educazione e/o di morale.
Riaprire i porti, certo, ma all’interno di una «grammatica dei diritti» diversa da quella dell’attuale sistema d’accoglienza e dalla sua «cura» umanitaria. Più politica, meno morale (autoassolutoria). Come mostrano Macerata, Firenze e Minniti-Salvini, il tempo dell’innocenza (bianca) occidentale è chiaramente finito.

La versione integrale del testo sarà pubblicato nel sito decoknow.net