La personale guerra di Erdogan alla Siria si allarga alla comunità curda. I violenti scontri esplosi martedì notte ad Ankara, Istanbul e a sud, nelle città curde della provincia di Mardin, hanno lasciato a terra 19 manifestanti. Uccisi dalla polizia turca e, in alcuni casi, da gruppi islamisti giunti sul posto per disperdere le proteste anti-Isis a Diyarbakir, Mardin, Siirt, Batman e Mus. Alla frontiera con la Siria, i curdi si sono spinti verso il confine e sono stati fermati dai lacrimogeni.

La violenta repressione di Ankara è la risposta alle accuse della comunità curda che punta il dito contro l’immobile Erdogan. E proseguirà: il ministro degli Interni, Efkan Ala, ha accusato i manifestanti di tradire il paese e minacciato «imprevedibili» conseguenze nel caso di ulteriori sit-in. «La violenza sarà affrontata con la violenza – ha detto Ala – Quest’attitudine irrazionale va abbandonata, i manifestanti devono lasciare le strade». Alle intimidazioni reagisce il Pkk che fa appello alla piazza contro l’esecutivo. Si concretizzano le accuse mosse dal leader prigioniero Ocalan, che la scorsa settimana aveva avvertito Ankara: «Se Kobane cade, cadrà anche il processo di pace».

La decisione di Ankara di non intervenire a fianco dei curdi siriani che difendono strada per strada Kobane, già parzialmente occupata dallo Stato Islamico, radica la convinzione tra i curdi turchi che l’obiettivo di Erdogan sia quello di assistere in silenzio ad un massacro per poi garantirsi la migliore scusa per invadere la Siria. Dopo aver fatto pressioni sul parlamento perché autorizzasse il governo a inviare truppe all’estero, Erdogan si è limitato a dispiegare una trentina di carri armati al confine, che assistono immobili alla battaglia di Kobane. Unica iniziativa dei soldati turchi è stata sparare ai profughi in fuga dalla guerra.

Ankara resta in attesa: «Kobane è sul punto di cadere», aveva ripetuto martedì Erdogan prima di chiedere alla coalizione guidata dagli Usa di inviare truppe in Siria. Certo è che se Kobane cadrà definitivamente nelle mani dell’Isis, i miliziani si garantiranno il controllo pressoché totale del corridoio che da Aleppo arriva alla roccaforte islamista Raqqa e prosegue fino all’Iraq. Minaccia concreta alla Turchia, che a quel punto avrebbe una buona giustificazione a invadere.

L’accidia turca, che stempera le spinte bellicose della scorsa settimana, ha provocato la reazione degli Stati uniti che ieri hanno bombardato fuori Kobane per frenare l’avanzata jihadista. Erdogan insiste: l’intervento di Ankara sarà condizionato all’impegno Usa a rovesciare il presidente siriano Assad. Un diktat che alza la tensione con Washington: «C’è una crescente angoscia sul fatto che la Turchia la tiri per le lunghe e non agisca per prevenire un massacro a meno di un chilometro dal confine – ha commentato un funzionario della Casa Bianca – Stanno inventando scuse per non agire».

Il segretario di Stato Usa Kerry ha trascorso gli ultimi tre giorni al telefono con il premier turco Davutoglu, ma alla fine si è piegato: ieri alla stampa ha detto che evitare la presa di Kobane «non è una priorità strategica» e che l’idea di una zona cuscinetto tra Turchia e Siria «merita di essere esaminata». Eppure proseguono i raid. Gli islamisti controllano il nord ovest e l’est della città: «Sono agli ingressi della città – ha detto Idris Nassan, portavoce curdo del distretto di Kobane – Le bombe della coalizione hanno avuto effetto e l’Isis è stato spinto indietro. Si tratta della principale ritirata dal loro arrivo in città».

Sostegno aereo c’è, ma non lo stesso appoggio militare di cui godono invece i peshmerga in Iraq. Washington appare più riluttante nei confronti dei curdi siriani, a cui non invia né armi né consiglieri militari. A ridimensionare l’intervento Usa è la presenza del Pkk, considerato organizzazione terroristica e non certo un partner come Irbil. Così si mina alla base l’efficacia della coalizione anti-Isis: nel nord della Siria non si ottengono informazioni di intelligence, mancando una rete di comunicazione capace di coprire il gap lasciato dall’assenza di truppe di terra. Erdogan questo lo sa. E ritarda l’azione per ostacolare la resistenza curda del Pkk.

Da parte sua il governo iracheno punta ad evitare una spaccatura interna. Ieri è stata lanciata una vasta offensiva per la ripresa della città di Ramadi, nella provincia sunnita di Anbar. Sul piano politico, l’esecutivo di al-Abadi sta facendo pressioni sulle milizie sunnite perché si armino contro lo Stato Islamico. Ma i sunniti sono irremovibili: la partecipazione alla guerra all’Isis ha come condizione una maggiore rappresentanza politica nel paese.