Dove va la Gran Bretagna? Questa la domanda che attraversa il brillante, a tratti amaro, ma sempre raffinato e provocatorio pamphlet di Leonardo Clausi, Uscita di insicurezza. Brexit e l’ideologia inglese (manifestolibri, pp. 159, euro 16), firma nota ai lettori de il manifesto, in qualità proprio di corrispondente da Londra. Dal referendum del 23 giugno 2016, questa è «la» domanda che attraversa il vecchio continente, visto che quel giorno il 52% dei votanti britannici, a prevalenza inglese e gallese, si espresse in favore dell’uscita dall’Unione europea: British Exit, Brexit, appunto!

CLAUSI CI RICORDA che quella era la stessa domanda che si poneva Lev Trockji tra le due guerre (Where is Britain Going?, 1925) quando il teorico della rivoluzione permanente utilizzò tutto il suo urticante «vetriolo da polemista» per fulminare il «pensiero inglese come bastione filosofico di un conservatorismo fisiologico della classe dominante come di quella operaia rappresentata dal partito laburista». Ed è questo il primo filo rosso interpretativo, quello del conservatorismo ideologico fedele alla monarchia, che Clausi rintraccia nella millenaria storia sociale e istituzionale britannica. È la tradizione costituzionale «storicistica» del binomio libertà e proprietà, fondata tanto sul superamento del «diritto di nascita» quanto sul recintare le «proprietà comuni» (enclosures) per instaurare un rapporto di fedeltà e dominanza tra i soggetti e le classi, che conserva nei millenni la struttura gerarchica della società. Pur essendo il primo ordinamento costituzionale a garantire protezione dagli abusi di potere, certo sempre in favore dei maschi Britons «liberi» e proprietari.

Ed ecco qui il secondo filo rosso: l’orgogliosa rivendicazione britannica, ma soprattutto inglese, di una duratura primazia temporale e supremazia globale che li rende differenti e indipendenti dal contesto continentale e viene esaltata in infinite serie televisive puntualmente riportate nel libro.
Dai fondamenti medievali di Common Law e Magna Charta (1215) al plurisecolare dominio imperiale. Passando, in anticipo di un secolo rispetto al 1789, per la Gloriosa Rivoluzione del 1688 che forgia una borghesia sempre conservatrice, mai radical-repubblicana, se non in quelle frange minoritarie ed eretiche in contatto con le classi pericolose e operose, tutte sconfitte nel 1848 e inquadrate nel compromesso costituzionale «garante di un ordine che suggella le diseguaglianze sociali». È il Paese dove nasce la rivoluzione industriale compiutamente capitalistica, creando una inedita società di mercato globale che traffica nel commercio atlantico di schiavi, per poi abolirlo, nuovamente in anticipo rispetto alle altre potenze coloniali (1808).

CONSERVATORISMO filosofico-politico devoto alla monarchia e orgogliosa supremazia globale: il combinato dell’ideologia inglese che in virtù della propria posizione insulare esalta una vocazione atlantica e una snobistica diffidenza rispetto al continente, egemonizzato dagli eterni nemici franco-tedeschi. Tutto questo giocando opportunisticamente sul continuo scambio semantico tra «britannico» e «inglese», con Britain, Britannia, che risale all’antichità greco-romana, quindi England, Inghilterra, frutto delle invasioni anglo-sassoni del V secolo d. C. Quindi la Great Britain imperiale e multinazionale che annette la Scozia. Ecco l’eccezionalismo della tradizione anglo-britannica, inventata come tutte le altre, ma meglio delle altre, poiché capace di «esercitare un mono/oligopolio incontrastato delle risorse e delle ricchezze di mezzo pianeta almeno fino al 1945».

Dal secondo dopoguerra la transizione da Great Britain a Little England è irreversibile e nell’ultimo decennio di inasprimento delle diseguaglianze si affermano «nativismo» e «sovranismo»: un’idea di «anglicità in negativo, come reazione all’Europa e ai secessionismi scozzese, nordirlandese e gallese». E qui la verve iconoclasta di Clausi è tutta da gustarsi e condividere, contro le «fesserie sovraniste e nativiste riemerse dal sistema fognario del pensiero europeo» per affermare, con un secolo e mezzo di ritardo, un nazionalismo «popolare» inglese che colora di odioso razzismo la «British Exit a sfondo xenofobo», non più verso i migranti della prima ondata di decolonizzazione, ma nei confronti dei «biondi, bianchi e cristianissimi dell’Est Europa».

QUEL FANTOMATICO «idraulico polacco» che una decina di anni fa aleggiava nelle insopportabili campagne nazionaliste contro la famigerata direttiva «Bolkestein». Brexit è il compimento dell’eterna guerra tra poveri, alla ricerca del capro espiatorio, sotto i cupi stendardi issati dagli stessi governi statali: nazionalismo, razzismo, classismo. Siamo al cortocircuito ideologico e istituzionale di una lenta e inesorabile Finis Britanniae dentro la Finis Europae. Il declino nazionalista di un Paese imperiale e di un Continente che non è mai stato globale si chiude a doppia mandata: da una parte con il riemergere di un «socialismo nazionale», caro al George Orwell del 1941, come alle attuali dementi visioni nazional-socialiste di estrema destra e sinistra. Dall’altra con la solita pulsione liberista di Theresa May, al contempo devota suddita di una sovranità regale paternalistica. Che un qualche dio materialista, della solidarietà condivisa, salvi l’Europa e il mondo, invece che la Regina.