Sta diventando sempre più la norma, per registi giapponesi di spicco, cimentarsi con l’industria cinematografica della vicina Corea del Sud, per certi versi anni luce avanti a quella del Sol Levante, tanto per qualità della sua produzione commerciale, quanto per le possibilità creative offerte. Dopo Le buone stelle – Broker, lungometraggio coreano diretto da Hirokazu Kore’eda e presentato quest’anno a Cannes, Kore’eda la cui serie per Netflix, Makanai, debutterà in gennaio, è la volta di Takashi Miike con Connect, serie in streaming disponibile da ieri in tutto il mondo su varie piattaforme (Star, Hulu e in Italia su Disney +).

Nei più di centoventi lavori diretti dal regista giapponese in questi ultimi trent’anni si trova un po’ di tutto, dalla sperimentazione video degli esordi, ai film di yakuza, dall’orrore più spinto con cui è divenuto popolare, ai lungometraggi per giovanissimi, da film comici e surreali, fino ai film per bambini. In questo profluvio di produzioni, una media di cinque o più all’anno, Miike ha avuto il tempo di cimentarsi anche nella regia di spettacoli teatrali e di serie televisive, Connect è un ritorno a quest’ultimo tipo di lavori, declinata, come si diceva in apertura, al mercato streaming e tratta da un popolare webtoon sud coreano.

LA STORIA, che si sviluppa in sei episodi di circa quarantacinque minuti ciascuno, i primi tre sono stati presentati al Festival Internazionale del Cinema di Busan lo scorso ottobre, parte dal rapimento del giovane Dong-soo, interpretato dalla star Hae-in Jung, da parte di un gruppo di trafficanti di organi. Il giorno dopo, il ragazzo, che ha il potere speciale di far rigenerare il proprio corpo quando ferito, grazie ad un brano di chitarra diventato popolare su internet, si accorge che riesce ancora a vedere attraverso l’occhio mancante.

Ciò che osserva in queste visioni sono le azioni di un serial killer che uccide le sue vittime dopo averle plasmate come opere d’arte. Dong-soo per capire cosa gli stia succedendo attorno, decide di allora di mettersi alla ricerca dell’assassino, allo stesso tempo imbattendosi e cercando di svelare la leggenda metropolitana chiamata «connect», quella che permette al suo corpo di rigenerarsi dopo ogni ferita o amputazione. La storia, che si sviluppa in sei episodi di circa quarantacinque minuti ciascuno, inizia dal rapimento del giovane Dong-soo, interpretato dalla star Hae-in Jung, da parte di un gruppo di trafficanti di organi.

Violenza e scene d’orrore non mancano, ma sono abbastanza smorzate se confrontate a quanto Miike ci ha abituato in passato, si tratta più di un thriller con qualche elemento di fantascienza e punteggiato da alcuni momenti di body horror.

L’AMBIENTAZIONE metropolitana, mai ariosa ma spesso soffocante, e la tensione creata dalla musica e dall’interpretazione glaciale di quasi tutti i protagonisti, specialmente quella di Kyung-pyo Go nella parte del serial killer, sono smorzate da alcuni momenti comici che sono più che necessari per il fluire della serie, perché spesso la narrazione diventa un po’ troppo piena di sé e ridondante. Forse perché si tratta di una serie e quindi è stata strutturata per essere vista anche a spezzoni e non tutto d’un fiato, molti punti della trama sono infatti spiegati fin troppo, e spesso si ripetono. A questo proposito, un ottimo contrappunto è fornito da Roi-ha Kim, che interpreta il capo della polizia incaricato di risolvere il caso, personaggio sfaccettato che assieme alla sua astuzia di poliziotto porta nella serie anche brevi attimi di comicità che donano una dimensione diversa a tutto il lavoro. Il Miike più lisergico, granguignolésco e visualmente sperimentale, anche kitsch se vogliamo, emerge, finalmente dirà qualcuno, specialmente negli ultimi due episodi della serie che lasciano più spazio alla sua selvaggia immaginazione e concludono la serie.

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