La Mostra numero 74 è finita. Cosa ci portiamo dietro?

Momenti indimenticabili: il finale di Ex Libris di Frederick Wiseman, che affida alle parole di uno scrittore – siamo nella Biblioteca pubblica di New York – la poetica del suo cinema, cosa significa la relazione tra la realtà e il suo racconto. E poi: la danza tra la fanciulla e il «mostro» che fanno l’amore sott’acqua in una stanza senza più pareti nel film di Guillermo del Toro, The Shape of Water concedendo agli schermi ormai sempre più asessuati un istante di erotica sensualità.

E ancora il bimbo Nicki , il piccolo protagonista di Suburbicon, a cui George Clooney, più a suo agio con la sua idea politica del cinema che col comico paradossale dei fratelli Coen, autori della sceneggiatura originale, affida insieme all’amichetto african american, la scommessa di un futuro diverso dopo la battaglia. Le battute taglienti, e la testardaggine del senso di colpa di Frances McDormand in Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, la noia dei corpi affastellati senza amore nel «Destino» Mektoub di Kechiche.

L’energia di John Woo, un altro «grande vecchio», o meglio «cattivo maestro» che sa maneggiare con ironia e spudoratezza l’arte marziale del proprio cinema senza ripetersi e senza anestetizzare le proprie immagini all’autocitazione (Manhunt). Lo struggimento di Takeshi Kitano, che nel film di chiusura, uno dei più belli visti, dice addio a una parte del suo immaginario per reiventarlo in forme che sfuggono a qualsiasi canone di «genere» (Outrage Coda).

Le immagini restaurate – col magnifico progetto di recupero del cinema tunisino – di Le baliseurs du desert o I figli delle mille e una notte di Nacer Khemir (1984), farebbe bene a registi come Kechiche rivederle (insieme a L’enfant des terrasses di Boughedir).

Sontuosa immersione tra storia, pittura, mitologia nel passato e presente e futuro della Tunisia, e del Maghreb, narrati attraverso le finestre sull’orizzonte di sabbia in un piccolo villaggio del deserto, dove la ribellione – e la sfida al fato e alla tradizione – è sognare un giardino fatto di pezzi di vetri, specchi infranti su cui si riflette il cielo e si capovolge il confine con la terra .

Le metafore corrono leggere, ragazzini che corrono, composizione di un quadro, raffinatezza del dettaglio: Khemir intesse le sue storie con fili infiniti che sgorgano dal libro di Le Mille e una notte, e nella leggenda trasportano la realtà, la violenza politica – al potere c’era Bourguiba che negli anni del film aveva dichiarato lo stato d’emergenza (tre anni dopo ci sarà il colpo di stato militare di Ben Alì). Le migrazioni, l’esilio in un cinema radicalmente politico.

La libertà irriverente di Jean Vigo, nei tagli assemblati da Bernard Eisenchitz di Zero de conduite coi ragazzini che lottano nudi sotto le camicie da notte nel dormitorio del collegio, le geometrie di suspense di Dainah la metisse di Gremillon uno dei registi più amati da Jean Marie Straub.
E poi?

CINEMA ITALIANO

Era stata annunciata la Nouvelle Vague del cinema italiano. In concorso, il solo a spiazzare è stato Andrea Pallaoro, il suo Hannah a dimensione internazionale – e non solo per la presenza di Charlotte Rampling – esclude i paesaggi e le narrazioni ricorrenti sul Lido di periferie campane e romane, per confrontarsi con la sfida di un cinema che passa per la messinscena, errori inclusi.

Però poi ci sono Susanna Nicchiarelli e Edoardo Winspeare rispettivamente con Nico 1988 e La vita in comune a scompigliare. Lei sorprendendo con un film che raccoglie la scommessa della leggenda per creare una figura femminile sfaccettata e personalissima, lui con un racconto italiano libero, poetico e politico.

FIGURE FEMMINILI

Mai viste così maltrattate come in questa Mostra che rendendole la metafora (ahimè quanto abusata e con mano non leggera come quella di Nacer Khemir) del nostro mondo in conflitto ha finito per condannarle a torture inenarrabili. Incarnazione della Cina contemporanea e del suo capitalismo brutale che calpesta i deboli, le ragazzine di Vivien Qu sono violentate, prostituite, sottoposte a ogni genere di umiliazione, svendute persino dalla propria famiglia.

Aronofsky nella sua storia di coppia come metafora ( ancora!) della creazione, o viceversa, la condanna a essiccarsi – letteralmente – in eterno, per nutrire la fiamma creatrice del maschio/dio.
Nei film italiani sono o pazze o disadattate o vecchie in fin di vita con l’eccezione dei tre registi sopracitati.

CONFORMISMO

È sempre è più diffuso, e non solo perché non si fa più l’amore sullo schermo o perché il piacere del corpo viene confuso per la sua ostentazione (Mektoub di Kechiche). L’impressione è che si sia perduta l’irriverenza in nome di una misura nella quale far tornare le cose. Anche quando si pretende di andare contro il tempo. Forse è una inconscia autodifesa dell’immaginario, o una sua incertezza. Una bella battaglia di piume (Vigo) per scompigliare le cose?

DONALD TRUMP

Evocato da molti dei registi americani al Lido, e dai loro film, Trump e la sua presidenza sono stati a loro modo fra i «protagonisti» della Mostra. A portarlo al centro del dibattito con più determinazione è George Clooney che poco più di un anno fa aveva promesso: «Il nostro paese non sarà guidato dalla paura». Oggi che quelle paure sono realtà, il suo Suburbicon, attraverso la lente del passato parla agli Usa all’indomani dei fatti di Charlottesville e dell’elezione di un Presidente che simpatizza con l’odio dei suprematisti bianchi.

La continuità tra il razzismo di ieri e quello di oggi è anche al cuore del documentario (Orizzonti) di Nancy Buirski: The Rape of Recy Taylor, che evidenza la sopravvivenza di una mentalità apparentemente impossibile da eradicare, tanto che uno storico dell’Alabama può ancora dirle che esistevano casi di sesso consensuale fra le schiave e i loro padroni.

E c’è anche, nei giorni in cui milioni di persone vengono evacuate dalla Florida per l’arrivo dell’uragano Irma, la minaccia per l’ambiente evocata da mother! di Aronofsky: mentre il regista parla di Trump come del «nemico da combattere», la casa protagonista del suo film rappresenta anche la madre terra minacciata – tra le molte tragedie del nostro tempo – dalla catastrofe ecologica. (con la collaborazione di Giovanna Branca)