«Gli occhi con cui guardi certe cose, se riesci a vedere veramente ciò che accade, ti liberano». Ne è persuasa Nadia Agustoni, da anni una delle voci poetiche più interessanti del panorama contemporaneo. Oltre a numerose sillogi, ha dedicato pagine intense a Etty Hillesum, Elizabeth Bishop, Monique Wittig e altre. Domani sarà ospite di Pordenonelegge con il suo ultimo libro in versi, Gli alberi bianchi (LietoColle, pp. 114, euro 16,50).

Per lei «vivere è memoria di un altro / quei muri lasciati / a radici – / ci vestiamo / per dimenticarci». Chi è questo «altro» presente nel suo ultimo libro?
Gli alberi bianchi è un racconto della gente di questi posti della bassa bergamasca. Negli anni ho fermato frammenti di storie o veri e propri racconti di persone che in questi luoghi sono nate e qui hanno vissuto la loro precaria vita: contadini per conto di altri, operai, emigranti che sono rientrati dopo anni di vita altrove.
Storie di dolore e rabbia, di guerra e di cattiveria più spicciola; gente buona o cattiva; i dimenticati, sfruttati e dimenticati perché le loro sono vite a zero. Come i 17.000 morti sul lavoro dal 2009 al 2019 di cui nessuno si preoccupa veramente. Poi ci sono gli affetti in questo ultimo lavoro: mio fratello, mia madre, entrambi morti alcuni anni fa. Ci sono più tracce, ma soprattutto un mondo di sconfitti, di vinti, di cancellati.

In «Taccuino nero» (Le voci della luna, 2009) al centro c’è il modo in cui il lavoro significa le esistenze. Lei lavora in fabbrica, quindi di mezzo c’è anche il suo corpo.
Non volevo scriverlo, né parlare di fabbrica e di lavoro, ma in un incontro a Prato su genere, femminismo e razzismo, temi più che mai attuali, un paio di anni prima di Taccuino nero, incontrai Gabriella Ghermandi che lì presentava il suo libro. Lessi qualcosa che riguardava il lavoro, una pagina apparsa già in rete e lei ne fu colpita. Parlammo a lungo nelle pause dell’incontro e mi strappò la promessa di scrivere.
Con Taccuino nero feci un primo passo, parlando dell’effetto del lavoro in fabbrica sui corpi e sulle menti delle persone. C’è anche altro, ma mi interessava evidenziare che nonostante la pesantezza del contesto fabbrica si può essere liberi dalla condizione. È come stare su una linea di confine. Il fatto di stare lì ti porta ad una consapevolezza sui subalterni e sul potere che in altri contesti avresti forse più difficoltà a realizzare.

Nadia Agustoni, foto di Dino Ignani

«Il peso di pianura» (LietoColle, 2011) si misura con molti temi che ritornano nella sua poesia. Il nostro transitare talvolta inermi sulla terra, l’ingiustizia di non intuire che cosa poter chiedere alla polvere. In che modo il paesaggio circostante abita questa ferita?
Nel Peso di pianura continua il paesaggio lombardo del Taccuino nero. L’attraversamento di questa pianura desolata, ormai scolpita dal cemento, la perdita dei luoghi perché sfigurati, mette in moto la memoria. La memoria ha strati luminosi e oscurità; allora dove il buio sembra averla vinta arrivano le voci dei morti. Pensi a cosa ti direbbero; il dialogo coi morti è anche un prendere confidenza con la morte, e non dico sia facile, ma ci si interroga proprio perché la memoria è una fine e a qualcosa di concluso guardi come a una traccia. In verità cammineresti lo stesso, ma una parte del ricordo è sempre positiva: è quella che libera gli altri; quando c’è un salutarsi senza attesa di niente e li lasci andare ma sentendoli parte della tua storia, li liberi e tu respiri. C’è un terzo capitolo diciamo così, dopo Il peso di pianura; con Il mondo nelle cose (LietoColle, 2013), non c’è solo l’ambiente proletario lombardo e le sue precarietà. Uso l’espediente di due figure che sono anche due universali: Crusoe e Venerdì. E con Venerdì, ricreato, la cui precarietà è non solo di essere senza peso sociale, senza sicurezze, c’è anche la questione del genere; ovvero di una persona che è indefinita e indefinibile. Ben al di là di transessualismo e transgenderismo, qui c’è la libertà di non iscriversi in una norma o in un codice. Infatti è tra le due, la figura che più ha affascinato. In Italia però questo tema trova molta ostilità. Intendo il fatto che non ci si riconosca in nessun genere. Anche in Racconto del 2017 (Aragno) tracce di questa libertà non sono state lette; non so perché.

Le «Lettere dalla fine» (Vydia 2015, prefazione di Renata Morresi) rammentano il termine di ogni cosa. Anche le parole in cui «nulla è saltuario», come scriveva già qualche anno prima, «nascono da una fine, dove non sappiamo / cosa dice il dolore, cosa è vivo nel rimpianto».
Sì, solo che non c’è una vera fine, solo la penultima fine. E il rimpianto vive finché pensiamo di dover capire tutto. Ma se non si sa cos’è veramente il dolore, se fatichiamo a capirlo ogni volta, ancor meno sappiamo dell’amore. Le parole cercano un ordine, solo che le pietre d’inciampo nella vita sono più forti. Nelle Lettere della fine, parto con un ricordo di Halabja, le persone uccise dai gas fatti lanciare da Saddam Hussein, ma c’è poi la memoria dei primi passi di un pronipotino, la malattia di una persona cara in un ospizio, c’è ancora la fabbrica e ci sono incontri con altre culture, fino al poemetto finale col Billy Bud di Melville che dalla morte, vede tornare tutto come prima, l’indignazione subito sopita o chiusa in un recesso interiore, perché tutto chiama ad andare avanti, ai doveri, alla solita zuppa di bordo.

In molti dei suoi libri compare il tema della morte, intesa anche come distacco dei corpi da un mondo che li ha espulsi o che li vuole costretti. In questo senso i «Necrologi» (La Camera verde 2017) sono biglietti, minute precise di un disastro. Che cosa ha voluto descrivere?
Il vero libro sulla fabbrica è questo, scritto mischiando varie esperienze. Renata Morresi mi invitò a descrivere una giornata di lavoro in una qualunque fabbrica avessi lavorato. Fu un po’ una scommessa. Poi Maria Grazia Calandrone ha voluto pubblicare questi primi Necrologi su Poesia e mi ha invitato a scriverne altri. Lo stesso mi chiesero altre persone. Ne volevano altri perché non conoscendo nulla di questo mondo di fabbriche volevano capire.
Ormai gli intellettuali, con poche eccezioni, da decenni non si avvicinano più agli operai, quindi non sanno più cosa sia questo mondo. Solo con i Necrologi (recensito su queste pagine il 6 luglio 2019, ndr) ho potuto dire a Gabriella Ghermandi che avevo mantenuto la promessa.

Lei vive nella bergamasca e lavora in una fabbrica che non si è mai fermata mentre fuori la pandemia sconvolgeva il mondo. Come ha attraversato questo tempo?
In verità dall’ultima settimana di marzo la fabbrica si è fermata. Abbiamo vissuto lavorando le settimane in cui il virus era esploso. Avevamo mascherine e disinfettanti perché la direzione è intervenuta subito e chi non se la sentiva poteva mettersi in ferie. Io lavoro in un reparto dove c’è distanziamento. Quindi era più facile. Hanno messo in ferie i reparti dove il distanziamento mancava. Quando uscivo c’era la desolazione e durante il lavoro tutti pensavamo ai nostri a casa. Un momento difficile e inoltre avevo un fratello malato e alcuni parenti di cui non si capiva, tra cui un cugino che poi è morto.
Quando l’8 marzo abbiamo saputo che non fermavano le fabbriche e ancora ci dicevano che le mascherine a noi non servivano abbiamo capito che non contavamo nulla. Dopo gli scioperi hanno cercato di rimediare, siamo diventati anche noi essenziali e quindi eroi; ma Conte mentre lo diceva era pietoso e non nomino neanche Fontana, mi dà fastidio solo sentirne il nome; comunque si capiva cosa pensano i politici del lavoro. Gli ultimi giorni, prima che chiudessero tutto, subito dopo i camion dell’esercito a Bergamo, c’era ovunque un clima surreale. Un disorientamento totale. Ho ancora impresso il tardo pomeriggio in cui uscendo con la spesa dal supermercato, ancora con gli abiti da lavoro, le cassiere della U2 ci salutavano e piangevano e nel parcheggio ho realizzato la desolazione delle strade, il silenzio e le sirene delle ambulanze. Poi arrivata al cancello di casa, c’erano sul marciapiede un signore e una ragazzina disabile; la accompagnava in una passeggiata nel vuoto, ma con una tale tenerezza nel modo in cui la sosteneva che mi sono fermata un attimo, pareva che tutta l’umanità del mondo fosse lì in quell’istante. Poi il silenzio. Avevamo perduto le parole.

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SCHEDA. «Gialla oro», il nome di una collana

Si terrà alla Loggia del Municipio alle 21 di domani l’incontro dedicato alla collana poetica di Pordenonelegge in collaborazione con la casa editrice LietoColle. Ne discuteranno Nadia Agustoni, Massimo Bocchiola, Giulio Mozzi (in collegamento telefonico), Luisa Pianzola. Presentano Michelangelo Camelliti e Gian Mario Villalta. Il quinto anno della Gialla Oro è un traguardo importante che quest’anno va a consolidarsi con quattro autori di rilievo nel panorama nazionale e internazionale. Per vedere il programma del Festival www.pordenonelegge.it