Comunque vada la sessantesima edizione della Biennale Musica è già storica. Tornati di colpo ai fasti di quando il Festival Internazionale di Musica Contemporanea veneziano attirava le prime mondiali di autori sommi. E se non è tra i primissimi Salvatore Sciarrino chi altri lo è? Per la singolarità e spregiudicatezza del suo linguaggio musicale. Dunque, dopo la consegna solenne del Leone d’oro alla carriera si ascolta di Sciarrino un ciclo in tre parti di «canti», come li definisce l’autore, per soprano e ensemble intitolato Immagina il deserto. Novità assoluta. Ma fermiamoci subito sugli interpreti. Perché così di primordine è difficile incontrarne. La vocalista Anna Radziejewska (è protagonista dell’intera serata) mantiene nitore e serenità in qualsiasi passaggio. L’ensemble della London Sinfonietta è straordinariamente capace. Il direttore Marco Angius dà a tutti i pezzi il tocco di contemporaneità meditata che occorre.

 

 

 
Immagina il deserto è Sciarrino doc. Qui il clou si ha col «recitativo» o, meglio, col «parlato precario» o «parlato inquieto/esitante» del secondo movimento. Sciarrino tre volte nella «sua» serata. Insieme a un Ravel e due Stravinskij. … da un Divertimento, brano per ensemble di soli strumenti scritto da Sciarrino a ventun anni, è sconvolgente. Eccitante. Una rivelazione. Un andamento piuttosto frenetico dei corpi dei suoni che si fanno corpi «invisibili», si smaterializzano. Il «conversare» centrale tra gli archi, tutto di fremiti e glissandi, è prodigioso. Cantiere del poema risale invece al 2011. Torna Radziejewska, certe sue parti come un insistere rituale su una sorta di soliloquio ansioso interrogativo lasciano il segno.

 

 

 
Lo Stravinskij di Due poesie di Balmont (1911) e di Tre liriche giapponesi (1912), entrambe per soprano e ensemble, è squisitissimo. Ma c’è di più: è praticamente neoavanguardia, suona come le opere dei rivoluzionari darmstadtiani e oltre. E il Ravel di Trois Poèmes de Stéphane Mallarmé? Stesso discorso, pur nella lievità pastosa dei suoni.
Andando in cerca di interpreti eccezionali se ne trovano altri. I francesi (con un primo violino di origini cinesi) del Quatuor Diotima, per esempio. Come si capisce dal nome che si sono dati, Fragmente-Stille, an Diotima di Luigi Nono (1980) è il loro manifesto. Lo suonano facendoci accorgere come se fosse la prima volta che è cantabile. Eppure la rarefazione dei suoni è estrema, si gioca su suoni sospesi, lunghi, dotati di valore autonomo.

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La consenquenzialità «melodica» parrebbe esclusa dal contesto. Invece loro ce la fanno sentire. Nono lascia in ombra nella serata la prima assoluta di Figura di Kaija Saariaho per clarinetto, pianoforte e quartetto d’archi, stranamente retorica.
Bravissimo col suo violoncello barocco Fernando Caida Greco. Prende gli 11 Capricci di Joseph Marie Clément dall’Abaco (1710-1805), spiritosi, affettuosi, e li intercala con 12 brani nuovissimi (due per ciascuno) di sei compositori italiani di generazioni tra il 1959 e il 1977, Sonia Bo, Umberto Pedraglio, Alessandra Ravera, Paolo Rosato, Alessandra Bellino, Andrea Manzoli. Tutti abili nel guardare al modello di due secoli fa e nel non uniformarvisi. Durante il concerto dell’orchestra da camera Geometrie Variabili è una sorpresa magnifica il brano della novantenne francese Betsy Jolas: Wanderlied (2003) per violoncello e strumenti. Da qualche ricordo di Vienna ‘900 si procede verso episodi «ad effetto», percussioni vivaci, colori.

 

 

 
Poi arrivano gli elettronici tangenziali. Ryo Murakami che in atmosfera un po’ gotica collabora col produttore di immagini in b/n Tatsuya Fujimoto per realizzare la prima versione italiana del recentissimo The Wall. I quattro di Tempo Reale. Si chiamano Francesco Giomi, Francesco Canavese, Francesco Casciano, Damiano Meacci e presentano la novità assoluta Symphony Device. Mettono in scena oggetti desueti (telefoni, televisori, floppy disc, ecc.) e costruiscono una vera sinfonia. Ma si sente rigidità. Ci sarebbe voluto un band-leader come Duke Ellington, forse.