Dovremmo recensire anche delle recensioni quando non avremmo più niente da fare. In un articolo online, discorrendo di un film, un autore nota quanto e come di “sguardi e corpi” siano infarcite molte recensioni dei cosiddetti (critici) “fessi”. In un’epoca in cui l’ultima frontiera del nichilismo è la rivendicazione (o la negazione diretta) dell’anatomia, il cinema resta, per fortuna, fatto di corpi, come principio attivo dell’immaginazione. “Kala Azar” (2020) della greca Janis Rafa si è fatto notare, tra i vari festival, allo “Schermo dell’Arte” dello scorso anno e alla rassegna berlinese di cinema greco di giugno, vincendo il premio come migliora opera emergente. Il film prende corpo, appunto, dal nome di un parassita che negli anni Novanta terrorizzò L’Europa del Sud attaccando e uccidendo molti cani. Una giovane coppia (Penelopi Tsilika e Dimitri Lalos), che parla pochissimo, lavora in un crematorio per animali, prelevando le salme porta a porta quando non dalle strade. Non solo cani, ma anche pesci rossi e canarini, non solo ceneri da consegnare ai proprietari ma anche randagi da proteggere portandoli in un canile. Siamo in Grecia? Forse. Non è importante definire l’angolo di Europa meridionale tra gli animali morti, le gabbie, i feriti, e i cuccioli domestici. Tra l’uomo e la bestia, in questo film, il connubio è quasi sessuale, in una spirale di abbandono e sopravvivenza, dove la natura è arida, a tratti accogliente. Non siamo molto distanti da un altro film tattile, “Il mio corpo” (2020) di Michele Pennetta: anche qui i corpi dei protagonisti vivono di una estrema esposizione tanto da divenire un simbolo rarefatto, mimetizzati in un ambiente ostile anche socialmente. Nel lavoro di Janis Rafa la cura per gli animali sfiora l’ossessione e si arriva al finale con un senso di colpa che è anche un colpo di scena nella monotonia del ciclo di vita e morte. L’aspetto informativo è dissolto in una composizione palpabile e visiva “ma con un chiaro intento di rispondere alla nostra percezione e presenza in un mondo complesso, a contatto con altri esseri”, spiega la regista. E nella assenza dei dettagli la macchina da presa sfila via alla volta di una visione d’insieme per comporre “un paesaggio di corpi umani e animali, dalle differenti taglie, dimensioni, e destini”, aggiunge l’autrice. Una narrativa non antropocentrica che spiazza chiunque debba individuare le tracce di una “Greek New Wave”, tra lacune di trame e dialoghi. Su questo Janis Rafa si esprime chiaramente: “I riferimenti del film sono rintracciabili nel cinema argentino contemporaneo e nel mio lavoro come artista visuale”. Anche i segugi dell’oggettivo non troveranno appigli; il realismo lascia il passo alla sensualità di un sogno o di un incubo, così come nel citato lavoro di Pennetta. Comunque la blague era chiara: i fessi sono quelli che eccedono nel raccontare gli sguardi sui corpi. Speriamo di averlo evitato.