Il dramma delle sterilizzazioni forzate in Perù è finalmente arrivato sul tavolo delle Nazioni unite. Una associazione di vittime del piano ideato tra il 1996 e il 2001 dall’ex presidente Alberto Fujimori per il controllo demografico delle zone più impoverite del paese, ha presentato una denuncia attraverso l’Organizzazione della convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw) per chiedere l’intervento internazionale che garantisca una riparazione.

UNO DEI CASI PIÙ EMBLEMATICI raccolti nel dossier è quello di Maria Elena Carbajal Cepeda, che il 18 settembre 1996, dopo aver partorito il suo quarto figlio, è stata avvicinata dal personale sanitario dell’ospedale Maria Auxiliadora, a pochi chilometri da Lima, per convincerla a sottomettersi ad un intervento chirurgico di contraccezione. «Il parto era stato traumatico, avevo una lacerazione interna e un prolasso, ero molto stordita», racconta Carbajal. «Mi hanno chiesto se usavo contraccettivi. Ma io ero sposata con un uomo molto religioso, che diceva che solo le prostitute li usano. Hanno cominciato a insistere sulla necessità di un intervento chirurgico, io ero ancora intontita dal parto, e per di più non mi avevano ancora portato mio figlio. In quell’ospedale c’erano stati casi di smarrimento di bambini appena nati, temevo rubassero il mio. Ero disperata e sola, ma non ero disposta al procedimento chirurgico».

Le disposizioni del Piano di Salute Pubblica emanato pochi mesi prima, incoraggiavano medici ed infermieri a realizzare la maggior quantità di interventi possibili. In alcuni casi addirittura con premi in denaro. L’obiettivo, nobile in principio, era assicurare alle donne delle popolazioni vulnerabili del Perù l’accesso a metodi contraccettivi.

L’iniziativa venne finanziata dal Fondo delle Nazioni unite per la popolazione e l’agenzia statunitense Usaid con quasi 40 milioni di dollari. In totale furono realizzati circa 250.000 interventi, tra cui anche 20.000 vasectomie. Un rapporto del pubblico ministero del 2017 però ha rivelato più di 5.000 casi di sterilizzazioni realizzate senza consenso, la maggior parte a donne indigene ed analfabete.

 

foto Ap e Maria Elena Carbajal Cepe, operata senza consenso nel 1996

 

«DOPO L’INTERVENTO mi resi conto che mi avevano tenuto nascosto mio figlio appena nato per obbligarmi a cedere alla sterilizzazione», spiega oggi Carbajal. «Rimasi vari giorni nell’ospedale perché dovevo la parcella e non potevo uscirne fino a quando non avessi saldato il debito. Finché mia suocera risolse la situazione e tornai a casa. Il padre dei miei figli mi aveva abbandonato».
Allora Carbajal aveva solo 26 anni, e quando tempo dopo, con un nuovo partner, volle provare a rimanere incinta di nuovo, scoprì che l’intervento che le avevano praticato era irreversibile. «Col passare degli anni cominciai ad avere problemi di salute. Soprattutto problemi ormonali, talmente grandi che durante un periodo ho dovuto assumere morfina. Col tempo mi sono letteralmente consumata. Oggi ho 50 anni e artrosi alle ginocchia e alle spalle. Sono assistente geriatrica da 25 anni, e ormai non posso più lavorare».

LE CONSEGUENZE SOCIALI e psicologiche dell’abbandono a cui sono ancora oggi sottoposte le vittime e le loro famiglie sono al centro delle denunce internazionali come quella presentata la settimana scorsa. Nel 2003 lo Stato peruviano fu obbligato dalla Corte interamericana per i Diritti umani a raggiungere un accordo con la famiglia di Mamérita Mestanza Chávez, morta nel 1998 a causa di un’infezione occorsa durante una sterilizzazione forzata, e fu obbligato a sostenere le spese di mantenimento ed educazione dei suoi sette figli rimasti orfani.

Sebbene ancora oggi le organizzazioni femministe esigano il compimento totale di quegli obblighi, il caso Mamérita è un precedente importantissimo per il riconoscimento della responsabilità statale. Nel 2015, dopo anni di lotta fu creato il Registro nazionale delle vittime di sterilizzazioni forzate. «Nacquero nuove speranze. Le vittime sentivano che la giustizia avrebbe agito, che i responsabili avrebbero pagato ciò che ci avevano fatto», racconta Carbajal, che nel frattempo aveva cominciato a partecipare alle riunioni di vittime di sterilizzazioni forzate insieme a migliaia di donne a Lima e dintorni. «Quando successe pensai che era stato un caso, una sfortuna. Non pensai che potesse essere qualcosa di premeditato. Ora so che quel che mi hanno fatto è un delitto. Che Fujimori ha voluto decidere sulla nostra volontà di procreare e ci ha condannato a qualcosa di traumatico».

Il registro però fu chiuso con le misure di austerity introdotte nel dicembre 2018, proprio mentre l’allora presidente Pedro Pablo Kuczynski annunciava la concessione di un indulto a favore di Fujimori, in carcere per altri crimini contro l’umanità.
Il 16 agosto scorso è stato aperto un nuovo rilevamento ufficiale di vittime. Per Carbajal e le sue compagne è una doccia gelida, che riporta la situazione indietro di anni.

«A CAUSA DELLA PANDEMIA molte delle nostre compagne sono morte, altre si sono ammalate e sono sopravvissute coi pochi mezzi a disposizione», aggiunge Carbajal, che da due anni è presidente dell’Associazione vittime della sterilizzazione forzata di Lima e Callao. «Non riceviamo nessun tipo di assistenza sanitaria, né aiuti da parte del governo. Abbiamo presentato delle richieste per ottenere una minima tutela in quanto vittime di un delitto contro i più elementari diritti umani. Ma non è successo nulla».