Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (manifestolibri, pp. 224, euro 16) di Roberto Ciccarelli si presenta come l’esplicito sequel di Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (Deriveapprodi), uscito all’inizio del 2018.

La doppia lettura del sottotitolo allude, infatti, alle ore che gli studenti sono obbligati a spendere in un solo apparente apprendistato che dovrebbe educare all’occupabilità – una «competenza» che non comporta alcun diritto all’occupazione che controbilanci il dovere di prestazione lavorativa gratuita. Ma al tempo stesso, fa segno al divenire-scuola della società, a quella «vita in formazione continua (life long learning)» che «assegna al soggetto il compito di creare la propria moralità accumulando il capitale umano e investendolo nel ciclo vitale»; una vita work-in-progress, un lavoro interminabile di interiorizzazione, sperimentazione e formalizzazione dell’investimento economico di sé come idea regolatrice della vita: l’ideale dell’imprenditore di sé come compito/obbligo infinito.

CAPITALE DISUMANO non è confinabile all’interno delle pareti scolastiche, quasi fosse la scuola un impero nell’impero senza rapporti con l’esterno, e cioè col capitalismo nell’epoca della finanziarizzazione e della governance neoliberale. Beninteso, questo primo livello di lettura ci consegna un’indagine informata, una vera e propria inchiesta fatta di letture, incontri, assemblee, raccolte di testimonianze: l’autore, insomma, scrive con cognizione di causa, non spaccia per «frammenti d’inchiesta» chiacchiere raccogliticce che suppliscono all’incapacità di una presa di parola, né si arruola fra quelli che reiterano una stanca litania mastrocoliana sulla decadenza della società e della scuola – due casi opposti e convergenti di quel pensare a nastro, per dirla con Savinio, che permette di parlare di scuola senza saperne e/o capirne alcunché.

IL SECONDO, più profondo strato del libro, si esplicita nei capitoli conclusivi sulla potenza degli studenti e sull’odio contro il Sessantotto e, soprattutto, sull’altro mondo come dimensione più propria del soggetto umano e della sua potenza di essere. Sfuggendo alla sterile antitesi pro/contro l’uso politico dei concetti di «umano» e «umanità» (nella quale di rado è presa in carico la dimensione del divenire umano), Ciccarelli è consapevole che «l’umano non ha fondamento, la sua natura non coincide né con un essere determinato, né con un’essenza. L’essere umano si costituisce contemporaneamente al suo darsi nel mondo».

L’ATTIVITA’ dello studente non è riconducibile né al discorso sullo studio come finalizzato a una prestazione salariata, né a quello dell’inutilità dello studio in sé: lo studente mette all’opera quella facoltà – la sua forza lavoro – che «è una manifestazione del lavoro vivo», ciò che per Marx genera ogni tipo di valore d’uso». Lo studente è una potenza «irriducibile all’atto del lavoro, allo status professionale o formativo corrispondenti»: per lui c’è sempre un’eccedenza rispetto allo studio che si compie, così come «il lavoratore non è mai il lavoro che fa».

SENZA questa dimensione del soggetto secondo potenza, nella quale le migliori letture dello spinozismo si uniscono in felice mescolanza col miglior (post)operaismo, un discorso sull’umano messo al lavoro finirebbe con lo sporgersi sul crinale del soggetto alienato e condannato alle catene del lavoro, con la conseguente sua vittimizzazione più o meno moralistica.

OCCUPARSI del divenire-scuola della società nella quale l’intelletto è messo al lavoro nella prospettiva di resistervi e, se possibile, sovvertirla comporta la consapevolezza che «il soggetto è sempre il risultato di una doppia azione: da un lato, è una soggettivazione; dall’altro lato, è un assoggettamento». Sfruttamento ed emancipazione «alimentano una lotta del soggetto, e nel soggetto», nella quale la condizione si subalternità può essere rovesciata: a condizione che si sappia ricostruirne la genesi e decostruirne la narrazione che ne fa uno status naturale o irreversibile.

LA SCUOLA diventa così un cannocchiale privilegiato per osservare dal basso le sottili incrinature della società neoliberale, giacché non solo gli studenti, ma tutti noi siamo in alternanza scuola lavoro, in oscillazione perpetua fra un lavoretto (Gig-Economy) e un contratto a termine: «nella società della piena occupazione precaria siamo tutti in formazione continua perché vaghiamo nei gironi di chi cerca un lavoro e in questo ha trovato la sua occupazione. Nell’intermezzo tra un lavoro e un altro si moltiplicano le ingiunzioni a studiare, riqualificarci, inventarci, imparare un altro mestiere, creare l’impresa di noi stessi, aumentare il nostro capitale umano».

LO SCOPO è la metamorfosi dell’umano in capitalista umano («il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista», secondo Benjamin): in quanto capitale umano, l’essere umano «in carne e ossa è considerato il veicolo che trasporta la vita del capitale, non è la causa che lo genera», e l’umano diventa «un accessorio del capitale». Le narrazioni che creano la figura del fannullone, del bamboccione, del neet colpevoli di non saper trovare un lavoro, sono funzionali alla creazione di un’economia morale che supporta questi processi: così come lo sono la trasformazione del sapere in merce parcellizzabile e spendibile, attraverso quelle realissime ipostasi che sono le fantasmatiche competenze.

SONO PROCESSI che hanno un effetto performativo, e veicolano una visione astratta dell’uguaglianza, il cui rovescio è la concretissima disuguaglianza scolastica di fatto fra nord e sud, che rispecchia la disuguaglianza della distribuzione di imprese, ricchezza, servizi sociali. Alternanza, occupabilità, portfolio, tutoraggio (un «manager per l’anima») sono altrettanti strumenti per divenire capitale umano, ma soprattutto per divenirlo volendolo e credendoci.

MA LA SCUOLA è anche, in potenza, «uno strumento per prendere la distanza da ciò che i poteri costringono a essere». In questo senso, con buona pace di Galli della Loggia, la sede propria della democrazia sono le aule scolastiche. Attento alla lezione di don Milani e dei Situazionisti, che sull’educazione hanno scritto pagine tutt’ora inattuali (penso a Raul Vaneigem: una scuola in cui la vita si annoia educa solo alla barbarie), Ciccarelli sa che «la scuola è un divenire e dipende da chi la vive: gli studenti e i docenti. Dal loro uso dipende la democrazia del tempo liberato, l’inclusione di chi non lo conosce e di chi pretende di poterne fare a meno perché lo giudica inutile».

UNA CONSAPEVOLEZZA che chiama a un’alleanza fra generazioni: «al docente resta la libertà di insegnamento. Può iniziare a praticare la consapevolezza di non essere libero di insegnare in un mondo che lo trasforma in un operatore a supporto dei centri dell’impiego. Agli studenti può insegnare a non obbedire ai test, agli algoritmi e lui stesso può liberarsi dalla retorica che gli ha attribuito una «missione del dotto» che oggi coincide con il compito di valorizzare il «capitale umano». A partire dalla richiesta di un reddito di base agli studenti, riconoscendo «la loro condizione di forza lavoro in potenza. È la stessa ragione per cui ciascun essere umano ha diritto all’esistenza».

*** Il libro sarà discusso da Lea Melandri e Cristina Morini domani a Milano al festival dell’editoria e musica indipendenti (Femi) in via Vittorio Veneto 24 dalle 19,30. Giovedì 18 ottobre dalle 18 all’atelier Esc in via dei Volsci 159 con Anna Angelucci, Alberto De Nicola, Biagio Quattrocchi e Francesco Raparelli