Per chi si occupa di sorveglianza e controllo sociale, David Lyon costituisce una bussola imprescindibile per orientarsi nei meandri di una materia che finisce per sconfinare nell’antropologia, nella sociologia e nella scienza politica.
Fin dai tempi di L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza o di La città sorvegliata (entrambi pubblicati in Italia da Feltrinelli) per arrivare a Sesto potere: La sorveglianza nella modernità liquida scritto insieme a Zygmunt Bauman e pubblicato da Laterza, Lyon ha concentrato il suo sguardo sulla crescita dei dispositivi di controllo, riuscendo a coglierne le evoluzioni (https://cms.ilmanifesto.it/il-click-del-controllo/). Un altro grande merito di Lyon, professore di sociologia alla Queen’s University in Canada, è quella di modificare il proprio approccio, senza innamorarsi di un’impostazione. Nel primo capitolo di La cultura della sorveglianza (introduzione di Gabriele Balbi e Philip Di Salvo, Luiss University Press, pp. 229, euro 20) Lyon parte da un assunto fondamentale: non siamo più in tempi nei quali Orwell e il suo 1984, di cui si riconoscono i meriti indubbi, possono essere considerati lenti che permettono di leggere la realtà. Non a caso nel titolo c’è la parola «cultura»: l’autore concentra infatti i suoi sforzi analitici nel tentativo di presentarci l’ulteriore balzo della sorveglianza, come un processo che non è più univoco (con le autorità, il potere a controllare il popolo) ma che si amplia di complessità nel momento in cui tutti siamo coinvolti, in quanto creatori di quei dati che diventano fondamentali per le politiche di sorveglianza, fino a diventare gli utenti stessi «controllori». Insomma, nessuno è più innocente.

NELL’INTRODUZIONE, Balbi e Di Salvo riassumono alla perfezione questo passaggio, quando scrivono che «con una efficace metafora David Lyon parla di ’sorveglianza generata dagli utenti’, riecheggiando il mito, rimasto più tale che una realtà consolidata, dei ’contenuti generati dagli utenti’». In particolare i social media, da luoghi che avrebbero dovuto ribaltare i paradigmi della creatività, dell’informazione e della partecipazione democratica, «si sono piuttosto trasformati in zone di performance di sorveglianza di vario tipo dove gli utenti sono sia sorvegliati che sorveglianti dei loro pari».
La cronaca è piena di eventi, anche delittuosi, partiti da un post su Facebook quando non addirittura da un like «sbagliato», così come attraverso i social è possibile «sorvegliare» persone di cui si vuole sapere di più o contro le quali si vogliono intraprendere attività di natura anche criminale, come avvenuto in alcuni casi. Da controllati siamo diventati controllori e questo implica notevoli problematiche.
Lyon si occupa di Occidente e conferma quanto si va osservando da tempo, ovvero che il capitalismo di sorveglianza ha finito per permeare società anche diverse, creando una «cultura» capace di agganciarsi a sistemi valoriali differenti. Si parla, ad esempio, molto spesso di Cina come distopia in riferimento al suo impianto di sorveglianza, forse proprio nell’ottica di allontanare l’incubo: in realtà ci siamo immersi anche noi, anzi foraggiamo e contribuiamo alla creazione costante della «cultura della sorveglianza». Quest’ultima, scrive Lyon, «è comparsa perché sempre più le persone usano strumenti di monitoraggio. Molti controllano le vite degli altri usando i social (…). Allo stesso tempo gli ’altri’ rendono tutto questo possibile concedendo di esporsi alla vista con messaggi e tweet, post e fotografie».

LA PROSPETTIVA del libro è indagare l’idea che la sorveglianza stia diventando un intero modo di vivere, non più dunque qualcosa di esterno a noi, quanto qualcosa «a cui i cittadini comuni si conformano – volutamente o consapevolmente o meno -, che negoziano, a cui oppongono resistenza, a cui prendono parte e, in modi nuovi, cui danno inizio e che desiderano». Dal controllo dei figli, a quello degli amici, dal modo di comportarsi quando si sa di essere sorvegliati (gli esercizi in aeroporti, stazioni ecc), è ormai nata una cultura della sorveglianza capace di scatenare nuovi immaginari securitari, da cui nessuno può dirsi completamente esente.