Devo premettere un disclaimer: dei fatti, delle persone, dei luoghi di cui si tratta in Scrissi d’arte (L’Orma, pp. 304, euro 21,00) di Tommaso Pincio, mio coetaneo, sono stato testimone e in alcuni casi anche complice. Mai imparziale comunque. Se tutto ciò potrà rendere al mio punto di vista la sua implicita dose di partigianeria, resta che dalla lettura di questo libro riemergo con una netta sensazione di sorpresa. Ero pronto a una lettura piuttosto conciliante – un’autoantologia di scritti dispersi, dedicati a un ambito campo, l’arte visiva, tutto sommato tangente al dominio letterario in cui Pincio è oggi saldamente acquartierato (si veda, uscito nel 2015, il più recente suo romanzo, Panorama) – e invece eccomi a riferire di quella che Andrea Cortellessa chiama nel risvolto «un’autobiografia per interposta quadreria», una narrazione dove l’arte degli altri, scrive Pincio, diventa un’occasione per raccontare se stessi, e – aggiungerei – un tentativo di comprendere il carattere della propria generazione e più in generale quello di una Roma (e di un’Italia) colta a un tornante decisivo della sua vicenda recente.

Ovvero, e solo in apparenza per serendipity, una resa dei conti al tempo stesso esistenziale e letteraria con i diversi Io che hanno nel tempo abitato, alcuni simultaneamente, altri allo stato latente, la vita dell’autore: studente d’accademia di belle arti, aspirante pittore, e assistente di altri artisti, gallerista, critico d’arte, curatore, e finalmente scrittore, una vicenda che il lettore è chiamato oggi a osservare come una di quelle stratigrafie usate dagli archeologi per studiare le trasformazioni successive di uno stesso luogo, abitato magari ininterrottamente dalla preistoria al tempo presente. Un palinsesto, in altre parole, in cui la scrittura (e la riscrittura, a sottrarre almeno, dato che i testi raccolti nel libro hanno subito diverse sforbiciature) lega e illumina di una luce retrospettiva, quasi sempre ironica, a volte tagliente, ma sempre con una sottigliezza che illumina con precisione anche gli eventi minori, le figure essenziali o di contorno, i moventi espliciti e quelli meno confessabili del protagonista, in un panorama in cui l’intreccio difficile, inevitabile, tra vocazione, abbaglio, ispirazione, errore, compongono il profilo accidentato di una Bildung sempre incompleta.

Ricapitoliamo allora. Scrissi d’arte allinea i testi critici, i saggi e le presentazioni che il secondo «Io» di Pincio (contando nel primo l’artista mancato con cui inizia la sua età adulta), ancora al secolo Marco Colapietro, ha composto a partire dal 1984 al 1998, corredato da un’appendice con scritti più recenti. A cucire le parti che lo compongono, introduzioni in corsivo che situano i testi, ne illustrano lo sfondo e le motivazioni, ne fanno il controcanto. Il libro ripercorre il coming of age della generazione dei nati nei primi anni Sessanta, la prima forse davvero postmoderna, in un percorso che parte dal clima culturale dominato dall’entusiastico ritorno alla pittura dei primi anni Ottanta alla crisi all’inizio del decennio successivo sino alle prospettive ormai definitivamente frammentate e tutte «contemporanee» alle soglie del nuovo millennio. Vi appaiono pagine sintomatiche e originali, come ad esempio Conformale (1992), scritto per la mostra omonima in cui esponevano, tra gli altri, Stefano Arienti e Alfredo Pirri, in cui Pincio tentava, come prima di lui anche Alberto Boatto e Achille Bonito Oliva, il difficile, o impossibile, compito di elevare il critico alla dignità dell’artista, ritratti penetranti, come quello, bellissimo, dedicato ad Alighiero Boetti, scritti militanti per artisti e compagni di strada generazionali, come, tra altri, Luca Buvoli, Marco Colazzo, Andrea Salvino. Testi in cui, in forme più o meno apprezzabili a seconda dei casi, si disegna il profilo di un critico d’arte di sensibilità inquieta e singolare, alle prese col costante tentativo di forzare le prospettive anguste, il linguaggio gergale, la marginalità culturale cui spesso si condanna la critica d’arte.

Si potrebbe mettere a confronto Scrissi d’arte con un libro di qualche anno fa di Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto: entrambi trattano dei Lehrjahre dei rispettivi autori, entrambi fanno l’archeologia delle rispettive vocazioni letterarie, misurano le metamorfosi di Io più antichi ed embrionali e la difficile relazione con i propri modelli. Nel caso di Pincio, tuttavia, la trasformazione è mostrata attraverso un montaggio tra archivio e tempo presente, con un effetto dialettico che invita a una lettura di secondo ordine, in cui i materiali, a partire dagli stessi testi d’epoca, divengono ora altrettante tappe di un processo di individuazione.

Ciò che si disegna nelle pagine di Scrissi d’arte è in effetti una traiettoria in cui la conquista di una voce, di una scrittura, di un’autorialità insomma, è la vera posta in gioco, nel tempo perdipiù in cui tutti – scrittori, critici, artisti – sono esposti all’erosione, anzi all’entropia, come scrive Pincio, dell’identità. Una conquista che se passa simbolicamente attraverso la morte e la trasfigurazione delle personalità, appare, anziché come un rassicurante, definitivo approdo, come l’apertura di una ulteriore, non meno problematica stagione sperimentale, come un agone in cui riappare in filigrana – è ancora Cortellessa a scriverlo nella sua postfazione – la secolare, fratricida rivalità, tra la penna e il pennello, tra pittori e scrittori.

Scrissi d’arte è uno di quei libri che non si limitano a raccontare, ma rendono sensibile un cambiamento che se riguarda anzitutto l’autore – ma la sua è inevitabilmente una conoscenza tardiva, e più della letteratura che della vita – al tempo stesso mostrano nel suo farsi concreto la contraddittoria trama di biforcazioni, finzioni, salti e ritorni di cui quel cambiamento è l’esito ancora solo temporaneo. Forse l’unico modo per fare veramente la pace con gli anni perduti, con una realtà mai all’altezza di illusioni troppo tenaci, sembra dire Pincio, è davvero esporsi, praticare anzi il rischio concreto di un fallimento, essere il fallimento, e riuscirne a parlare. È questa forse la maturità? Sarebbe bello averne guadagnata altrettanta.