«Non ho un progetto alternativo da offrire». Rivolto alla città che la vicenda Ilva la vive sulla pelle, Conte sceglie la carta della franchezza: «La sola cosa certa è che Mittal restituisce la fabbrica e dobbiamo valutare le alternative, Ma la soluzione in tasca non la abbiamo». Sono parole da cui sembra trasparire la fine delle trattative con la multinazionale franco-indiana. Non è così. I contatti proseguono, e si tratta di una classica contrattazione. Il governo italiano offre lo scudo penale ma fa muro sugli esuberi. Cinquemila lavoratori a casa sono fuori discussione. Il discorso potrebbe cambiare se Mittal, senza rimangiarsi la richiesta di modificare il Piano industriale, ridimensionasse le sue richieste, dimezzando il numero delle casse integrazione escludendo licenziamenti.

Paradossalmente, però, se su quel piano il governo trovasse un punto di mediazione con la multinazionale i problemi non sarebbero risolti ma, al contrario, si moltiplicherebbero. Finché la richiesta irricevibile degli esuberi copre tutto il resto, la maggioranza può mostrarsi compatta ed evitare la spaccatura sull’impunità affermando, non certo a torto, che il problema non è quello e che lo scudo è solo un alibi. Ma se si profilasse una soluzione la maggioranza, invece, esploderebbe. Perché trascinare l’intero M5S a favore dell’impunità è impossibile: al contrario, è molto più facile che sia l’ala che si riconosce nelle posizione drastiche della ex ministra Barbara Lezzi a imporre la propria linea per evitare una spaccatura quale dalla nascita dell’M5S non si è neppure mai intravista.

Ieri Di Maio ha incontrato, lontano dalle sedi istituzionali, l’intero gruppo di testa pentastellato al governo: Bonafede, Fraccaro, Spadafora, Patuanelli. «Conte ha fatto bene a parlare di scudo per stanare Mittal, ma la linea non cambia. Se presentano un emendamento per ripristinare lo scudo, per il governo è un problema». E’ un avvertimento esplicito, anche se all’interno della rissosa galassia pentastellata sono presenti anche le opinioni opposte. Di certo l’accoglienza riservata ieri a Conte dai tarantini, molti dei quali chiedono di tenere duro sullo scudo, rafforzerà la linea più rigida.

Se invece, come è comunque più probabile, la multinazionale non aprirà spiragli i problemi per il governo saranno altrettanto enormi, forse anche di più, ma di tutt’altra natura. Non si tratterà di tenere insieme la maggioranza ma di trovare quella soluzione alternativa che lo stesso Conte confessa di non essere al momento a portata di mano. Fino a due giorni fa qualche residua speranza di affidare l’acciaieria alla cordata sconfitta da Mittal nella gara ancora sussisteva.

Ieri, con un Tweet, Jindal Steel ha chiuso ogni spiraglio: «Neghiamo fermamente le indiscrezioni secondo cui potremmo rinnovare l’interesse per l’acciaieria».
Dunque, senza la resurrezione di ArcelorMittal, la palla passerà ai commissari e tra le ipotesi plausibili c’è ormai, esplicitamente, anche la nazionalizzazione. Ne aveva fatto cenno lo stesso Conte. «Non è un tabù», conferma Patuanelli. Il ministro dell’Economia Gualtieri è palesemente molto più tiepido. Il problema, in tutta evidenza, sono i costi. Altissimi in caso di nazionalizzazione ma anche se si materializzasse una cordata di banche lo Stato dovrebbe comunque accollarsi i costi della riconversione e della bonifica. Il caso Ilva resta un vicolo cieco e scatena una zuffa con pochi precedenti tra gli ex soci del governo gialloverde. L’M5S accusa la Lega di difendere Mittal perché azionista della multinazionale. Salvini risponde minacciando querela.

Dal punto di vista della tenuta del governo, piove sul bagnato. La manovra già non era facile, come ammette lo stesso Gualtieri. In un clima ancora più teso né Renzi né i 5S intendono rinunciare all’intenzione di dare battaglia per modificare la manovra. E ormai di crisi imminente non si parla più solo sottovoce.