Grazie al coinvolgimento di celebrità come la cantante Rihanna e l’attivista Greta Thunberg, da giorni la protesta dei contadini indiani rimbalza sui social network di mezzo mondo. Per il governo guidato da Narendra Modi le manifestazioni di dissenso che da quasi tre mesi interessano gli stati di Haryana, Punjab e New Delhi rappresentano un ostacolo non più sottovalutabile, sia in termini di tensioni sul campo sia, soprattutto, di danni d’immagine.

Nella giornata di ieri il premier indiano ha puntellato gli sforzi della propaganda governativa proprio dai banchi del parlamento di New Delhi. Mentre un esercito di lacché del governo più o meno noti – se ne trovano a decine nel mondo del cricket e di Bollywood, ma non mancano giornalisti e opinionisti – agitava lo spauracchio dell’ingerenza straniera negli «affari interni indiani» su Twitter, Modi si avventurava alla camera bassa del parlamento in uno dei suoi tradizionali calembour politici. Mentre noi stiamo parlando di Fdi, di Foreign Direct Investments per far crescere l’India, ha detto Modi, qui siamo sotto attacco di un altro tipo di Fdi: «Foreign Destructive Ideology», parafrasando il premier, un’ideologia straniera distruttiva che mira a destabilizzare l’armonia indiana fondata, secondo il Bharatiya Janata Party (Bjp), sul rispetto delle «tradizioni».

Lo scenario non è nuovo: l’India di Modi, sempre più simile alla Cina quando si tratta di rapporti con l’opinione pubblica straniera o col dissenso interno, tende a ricorrere sistematicamente alla sindrome d’accerchiamento per ricompattare il Paese quando il consenso scricchiola.

Con centinaia di migliaia di contadini ancora accampati alle porte della capitale, Modi ha anche attaccato i «manifestanti di professione», puntando il dito contro chi, sempre secondo la vulgata governativa, starebbe ingannando milioni di braccianti, raccontando falsità. Le liberalizzazioni dell’agricoltura, che secondo i rappresentanti dei contadini porterebbero allo spolpamento del settore da parte delle multinazionali della distribuzione, per il governo rappresentano un’opportunità per aumentare i profitti. Un’occasione, ricordiamo, che l’esecutivo ha fatto passare di corsa lo scorso settembre tagliando i tempi di discussione nelle commissioni parlamentari e senza coinvolgere le sigle sindacali.

Sul nodo del prezzo minimo di vendita, uno dei punti centrali per i manifestanti, il primo ministro ha cercato di offrire rassicurazioni, ripetendo più volte che non è nelle intenzioni del governo cancellarlo: rimarrà a tutela dei lavoratori, come rimarranno le derrate alimentari calmierate per i più bisognosi.

Rakesh Tikait, delegato del sindacato contadino Bharatiya Kisan Union (Bku), ieri pomeriggio ha replicato a Modi in conferenza stampa: «Non si faranno affari sulla fame del Paese. Se la fame aumenta, il prezzo del raccolto deve essere fissato di conseguenza. Chi vuole fare affari sulla fame della gente sarà cacciato dal Paese».

La protesta, insomma, è destinata a continuare ad oltranza finché, dicono i contadini, le tre leggi sull’agricoltura non saranno abrogate.

Nel frattempo, prosegue la stretta governativa sulla libertà d’espressione nel Paese. Oltre all’arresto dei giornalisti che hanno raccontato le proteste, il governo ha segnalato a Twitter 1.200 account «sospetti», chiedendone la sospensione o il blocco. Secondo i servizi indiani sarebbero «simpatizzanti di organizzazioni separatiste per il Khalistan o vicine al Pakistan». Al rifiuto del social network, fonti governative hanno fatto sapere che alcuni «like» di Jack Dorsey – Ceo di Twitter – a tweet di sostegno alle manifestazioni «fanno emergere dubbi sulla neutralità di Twitter.