Lasciamo da parte per ora quello che Alessandro Rossetto, un po’ scherzosamente, chiama il «fattore D». Ovvero il documentario con cui si è allenato all’immagine «totale» – è uno dei pochi registi italiani che sta anche in macchina – riuscendo a scavare tra le crepe sottili dei malesseri evidenti nel nostro paese. Senza enfasi, anzi quasi sottotono, per mettere al centro le sfumature più che le cesure violente, il rito quotidiano più che i grandi eventi, quelle cose ordinarie ma indispensabili per non arrivare stupefatti di fronte alle grandi esplosioni. Il suo punto d’osservazione è il nordest, luoghi che conosce bene, lui padovano emigrato a Bologna, Parigi e Roma, vi è sempre tornato (o quasi) nei suoi film – da Bye Bye One (99) a Chiusura (2002) – che ce ne raccontano l’anima invisibile, la «pancia» di oggi e di ieri a volte pericolosamente vicine.
Piccola patria – in sala e in tour italiano, non lo perdete è tra i migliori film dell’anno – ci porta di nuovo lì, in un nordest dai confini incerti e dai malumori strumentalmente fissi in cui si agitano i furori separatisti del Veneto insinuanti e diffusi più di quanto non dica l’attualità di questi giorni. Siamo in una zona di confine dove campagna e città cozzano senza entrare l’una nell’altra. Un hotel con piscina, un maneggio, capannoni, casali agricoli lasciati in abbandono, le strade diritte che tagliano l’orizzonte senza fuga. Qui vivono due ragazze, Luisa e Renata a cui danno vita Maria Roveran e Roberta Da Soller. E apriamo una parentesi: sono bravissime, Maria Roveran è anche musicista, è lei che ha composto e che interpreta alcune delle canzoni del film, rivisitando anche i cori di ispirazione popolare. Recitano in dialetto, coi personaggi fanno vivere un corpo a corpo pieno di suspense e di verità.
Lo stesso vale per gli altri attori, da Lucia Mascino nel ruolo di mamma molto o troppo poco «imperfetta», a Vladimir Doda e Diego Ribon, che Rossetto accompagna in un movimento d’improvvisazione sempre controllata. Così come la sua regia che cerca di far affiorare un sentimento scostante, e un approccio fisico alle zone d’ombra, spiazzando e la sceneggiatura (scritta dal regista insieme a Caterina Serra e Maurizio Braucci). O meglio contro l’idea che uccide molto cinema italiano secondo cui il film deve esserne più o meno l’illustrazione.
Cosa accade allora in quegli spazi geometrici resi quasi immoti dalla calura estiva? Uno scontro tra adolescenti, le due ragazze e il loro amico albanese, e gli adulti come la madre di Luisa che le grida dietro: «Ma giri sempre in mutande» criticando le gambe al vento della figlia. O il padre con pistola e pericolose attrazioni separatiste, o il tipo che sbava dietro a entrambe (Ribon), tutti chiusi in sogni e sconfitte che li hanno resi agri, razzisti, pieni di rancori a cui è facile dare fuoco. Le ragazze lavorano nell’hotel brutto ma con piscina, Renata, che di Luisa è possessivamente gelosa e quasi amante, ha messo in piedi un ricatto a uno degli uomini del paese, con cui ha avuto una relazione. Foto e filmini erotici che le ragazze minacciano di fare vedere in giro, coi soldi le due vogliono scappare via da quel buco. Però succede che Luisa si innamora del ragazzo albanese «utilizzato» per il ricatto, e dei soldi non le importa nulla … Meschinità gelosie, silenzi, chiacchiere e pettegolezzi cattivi, il gusto amaro di una rabbia sorda, crescono fino a diventare incontenibili. La «realtà», certo, e le sue epifanie improvvise come il comizio di Gianluca Busato, teorico del movimento indipendentista veneto. O la festa country di vino e malinconia. E soprattutto i luoghi, protagonisti in sé come se nell’aria ferma di caldo e umidità quegli umori cattivi vi si condensassero prima che nel cuore.

http://youtu.be/p4R6cgW4qHQ
E però questa analisi approfondita del malessere nordestino è molto lontana dalle modalità della cronaca, anzi ne è l’opposto. Forse c’entra quel «fattore D» di cui si diceva, almeno come lo ha interpretato nella sua ricerca il regista, ponendosi rispettoso sulla soglia per affidare il racconto alle immagini e non a un paradigma dimostrativo. Qui siamo in un diverso piano della narrazione, ma Rossetto come il nostro cinema migliore certe distinzioni (documentario/finzione ecc) le ha già abbandonate (e va dato merito alla produzione sveglia e indipendente di Gianpaolo Smiraglia e Luigi Pepe). Sa dove dirigere lo sguardo, e sa che la sorpresa deve essere reciproca, deve coinvolgere cioè lo spettatore quanto il regista o l’attore.
È su queste traiettorie mai giudicanti, disegnate negli stacchi dal montaggio sensibile di Jacopo Quadri, che si avventura, in una sequenza narrativa frammentaria, quasi come un thriller, punteggiata con tocco lieve di interni e esterni, vita domestica, sesso, desideri, bugie; di immaginario – non si può non pensare a Signori e Signore di Germi – di paradossi che non diventano «genere», commedia o quant’altro. La provincia, questa «Piccola patria» e la sua universalità che non è solo sorrisi compiaciuti sul sagrato domenicale della chiesa. Dentro Rossetto vi estrae obliquamente un magma ambiguità, perdita di Storia, crisi economica, spasmodica ricerca di un colpevole in cui si specchia il nostro tempo, inventando un suo grande cinema.