Se va avanti così, moriremo non solo democristiani di ritorno, ma pure un poco rimbambiti. A guardare l’edizione 2017 del Festival di Sanremo, sembra di assistere alla versione televisiva del patto del Nazareno. Con il Festival condotto da Carlo Conti e Maria De Filippi, le due maggiori reti televisive italiane non solo non si fanno più concorrenza, ma diventano complici di un modello di spettacolo che travalica il nazional popolare per diventare oppio dell’immaginario.

Siamo un paese che da una parte non vuole liberalizzare gli spinelli, dall’altra non esita a fornire dosi massicce di narcotico del senso critico.
Questo Festival ha tutti gli ingredienti di una torta stucchevole che solletica tutto ciò che ci fa sentire bravi italiani. C’è il revival nostalgico con la carrellata dei successi che non hanno vinto nelle passate edizioni, e in molti casi c’è da dire purtroppo.

Ci sono i buoni sentimenti con i due meritevoli adolescenti di Lecce che hanno fondato il movimento antibullismo «Ma basta». C’è il cuore in mano con gli «eroi», compreso il cane, che hanno dato l’impossibile per soccorrere le popolazioni terremotate e innevate del centro Italia. Peccato che si siano dimenticati, per esempio, di invitare anche i volontari del Ticino (Svizzera italiana) che in tempo di record hanno fornito frese e turbine per togliere dall’isolamento decine di paesi, e di cui nessuno ha parlato da noi. C’è anche un velato mea culpa con l’omaggio, tardivo, a Luigi Tenco che esattamente 50 anni fa si suicidò durante, e in parte a causa, del Festival che però non volle fermare la gara.

Basterebbe tutto questo a spegnere la tivù e dedicarsi ad attività molto più creative come andare al cinema, leggere un libro, fare l’amore. E invece no, dentro la torta già piena di glassa e panna montata mettono l’alchermes, liquore dolciastro che si aggiunge diluito a certi dolci per colorarli e dare un’ombra di alcolico, espediente perfetto per far credere che bevi un liquore mentre, invece, ci stai solo pensando. Le battute allusive al pacco maschile facendo finta di parlare del pack addominale (detto anche tartaruga), i perenni riferimenti all’eccessiva abbronzatura di Conti (per favore, autori, trovate un’altra idea), il gioco della parti fra un Conti finto imbranato e una De Filippi tosta, la piaggeria della giovane conduttrice sportiva che si spertica in lodi al conduttore (ma c’era proprio bisogno?), tutto ciò renderebbe irrapresentabile persino una recita all’oratorio.

Sbaglia chi vede in questo duetto di conduttori una gara, Maria contro Carlo.
In realtà va in scena una perfetta complicità di intenti e un’idea di televisione che non deve inquietare, autoassolve e non è nemmeno capace, tranne alcuni casi, di darci belle canzoni, che poi sarebbe la missione primaria di un festival canoro. Per depurarmi da tanta banalità, a fine puntata mi sono fatta una canna canora. Ho riguardato l’esibizione di Mia Martini al festival del 1992. Cantava Gli uomini non cambiano. Arrivò seconda, ma almeno c’era.