Estatto dalla voce “Identità” di Roberto De Gaetano, tratta dal secondo volume del “Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita” (Mimesis Edizioni), a cura di Roberto De Gaetano. *

L’io non è mai stato pensato nella nostra tradizione culturale come istanza capace di precedere ed astrarsi dal mondo (ego cartesiano), ma sempre come soggetto calato in un contesto vitale, sia esso quello della natura (Giordano Bruno) o della storia e del potere (Niccolò Machiavelli). O meglio, tranne rari casi, l’identità non è stata mai pensata come dimensione meramente soggettiva, ma come precipitato di un impersonale, sociale e storico, di cui il nostro cinema ci ha riconsegnato un’immagine unica per forza e incidenza, che è passata per generi (commedia, melodramma, romanzo) e per stili diversi (il realismo, sia drammatico che grottesco).

Insomma, il radicamento nell’orizzonte della vita, che significa anche radicamento nelle condizioni materiali di esistenza dei personaggi e delle situazioni, ha collocato il nostro cinema in una posizione originale, che ha fatto dell’io e del mondo due istanze non illusoriamente definite, contrapposte e dialetticamente regolate dall’azione.

L’io e il mondo nascono insieme, secondo la formula di un «soggetto mondanizzato», da sempre esposto ad un fuori attraverso la “prassi” (Gramsci) o dove il fuori, divenuto istituzione, viene “interiorizzato” (lo Stato in interiore homine di Gentile).

Quest’attenuazione dei confini tra l’interno e l’esterno, che diventano inassegnabili e indecidibili, trova riscontro nell’assenza dal nostro cinema della «grande forma d’azione», di cui l’epos è il genere dominante. La grande azione è fondata sull’identificazione e distinzione degli elementi che la compongono: il cosa, il chi, il come e il perché dell’azione. È un principio di identità quello che l’azione afferma nella sua forma più cristallina, e cioè nel suo sviluppo “grande”, articolato nei differenti «duali». Se nel cinema italiano non c’è grande forma d’azione (neanche nel cinema bellico del regime) è perché non c’è identificazione certa di un mondo (dei suoi elementi costitutivi) e della sua distinzione dall’io.

L’impossibilità di determinare una distinzione tra l’io e il mondo (tra il soggetto e l’oggetto), e dunque di individuare una situazione sufficientemente stabile che un soggetto dotato di volontà possa modificare, ha spostato il nostro cinema verso forme generiche orientate ad una presa in carico dell’ambivalenza come tratto costitutivo della vita individuale e sociale, che ha trovato una messa in immagine saliente per esempio nella commedia, ma anche, in senso opposto, nel melodramma.

Se il cinema ha tenuto in molti casi separate le due dimensioni del sociale e dello psicologico, del comportamento e dell’interiorità, degli habitus e dei sentimenti, collocando nella prima prospettiva i grandi generi del cinema americano (western, commedia, epos) e nella seconda la grande tradizione del cinema d’autore europeo (da Bergman a Tarkovskij), il cinema italiano, nella sua forma più alta, ha spezzato come nessun altro questa polarità riduttiva, spingendo radicalmente il soggetto nel mondo (rendendolo, spesso, indiscernibile da esso), o introiettando fino all’inverosimile il mondo nel soggetto. In entrambi i casi ha creato una zona di indiscernibilità, che ha sottratto l’identità e la sua forma ad ogni idea di relazione e di mediazione […].

La crisi di identità è la distanza che il personaggio prende dal mondo e dalla sua propria esperienza, una distanza che non gli permette di appropriarsi di alcunché, che lo rende estraneo a se stesso. Se le figure maschili si sono identificate negli anni sessanta con la galleria di maschere, nascondendo artificiosamente questa distanza, le figure femminili hanno esibito in forma più chiara la crisi e lo stato cronicamente inesperienziale del soggetto.

Un ruolo centrale in questo l’ha giocato Antonio Pietrangeli e un film di importanza decisiva come Io la conoscevo bene (1965), dove la crisi di identità non riguarda soltanto la “malattia d’amore”, come nel caso di Antonioni, ma una espropriazione più profonda, che colloca il soggetto al di qua della malattia stessa, in una assenza di interiorità e dunque anche di desiderio. Il soggetto si fa oggetto fluttuante, che transita da una situazione all’altra, senza aderirvi ma anche senza resistervi. In questo caso si tratta di una ragazza, Adriana Astarelli (Stefania Sandrelli), che giunge a Roma dalla campagna, sedotta da sogni di successo per ritrovarsi come una sorta di oggetto-testimone che passa da un uomo all’altro prima di cadere, di precipitare, anche qui con un tasso debole di volontà, dall’alto di un balcone. «È sempre contenta, le va bene tutto, non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità, non si sorprende mai, le umiliazioni non le sente, eppure povera figlia, dico io, gliene capitano tutti i giorni. Le scivola tutto addosso, senza lasciare traccia, come su certe stoffe impermeabilizzate. Ambizioni zero, morale nessuna, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana»: queste sono le parole di uno scrittore, disincantato e scettico sul suo proprio talento, con cui Adriana va a letto e che, attraverso la finzione del personaggio di Milena, la inchioda a ciò che è. E cioè un corpo privo di volontà, desiderio, tensione, energia, la cui bellezza e giovinezza («ragazza bella ed eccitante» è dipinta dallo scrittore) le garantisce di essere al centro dell’interesse degli uomini, senza che quest’attenzione vada oltre un uso sessuale. Di questo vuoto (senza sofferenza, senza sentimento, senza emozione), Adriana morirà, gettandosi a corpo morto nel vuoto.

La radicalità e l’assoluta modernità di Adriana risiedono nel fatto che il suo malessere non si sviluppa sotto forma di nevrosi, per la pressione di interdetti o prescrizioni. È un malessere senza apparenti sintomi, che raccoglie quello che con un linguaggio contemporaneo possiamo chiamare l’azzeramento dell’inconscio, che diventa un punto di non ritorno, perché include in sé la liquidazione del tempo. È ancora lo scrittore a parlare di Adriana, attraverso Milena: «Per lei, ieri e domani non esistono. Non vive mai giorno per giorno, perché questo la costringerebbe a programmi complicati. Perciò vive minuto per minuto. Prendere il sole, sentire i dischi e ballare sono le sue uniche attività. Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno di incontri nuovi e brevi, non importa con chi, con se stessa mai». Adriana, dopo le parole dello scrittore prende consapevolezza del ritratto: «Milena sono io, vero? Sono così, una specie di deficiente».

Il vivere «minuto per minuto» significa cancellare ogni interiorità, fondata comunque su una distensione temporale, sul passato, vicino o lontano, di cui avere memoria e consapevolezza e sul futuro, più o meno prossimo, che orienta desideri e aspirazioni. Niente di tutto questo, il puro presente di Adriana è quel vuoto incolmabile che elude la possibilità del costituirsi di una qualche esperienza e che progressivamente assorbe ogni illusione: dall’umiliazione per la ripetizione meccanica (e grottesca) in un cinegiornale di una sua risposta («Non so, speriamo») ad una domanda sulle aspirazioni di “giovane promessa” (cinegiornale che si chiude con un primo piano feroce della calza bucata, ironicamente commentato dalla voce off), fino alla serie di continui sfruttamenti e umiliazioni: dal “pappone” Cianfranna (Nino Manfredi) al viscido Dario (Jean-Claude Brialy) che la lascia in albergo con il conto da pagare, dalla signora (Karin Dor) che si dichiara sua amica e la fa abortire a Bagini (Ugo Tognazzi), che dopo essersi umiliato in forsennate claquettes, intercede per il miserevole Roberto (Enrico Maria Salerno), attore di successo che vuole incontrare la «simpatica» Adriana, fino ad Antonio (Robert Hoffmann) che la usa per farsi chiamare la fidanzata. In tutti questi casi, Adriana, alla disperata placida ricerca di consenso, di cui il successo rappresenta solo l’immagine più artefatta e corriva, si ritrova sottoposta a continue umiliazioni, a falsi amici, ad opportunismi biechi. Tra una canzone ascoltata alla radio, un paio di occhiali da sole alla moda, un servizio fotografico nella speranza di chissà cosa, un saltare al collo del primo che incontra, della prima promessa che le viene elargita, Adriana si “svuota” progressivamente senza essersi mai “riempita”: lo specchio nel quale si guarda compiaciuta subito dopo l’intervista al cinegiornale sembra saldarla illusoriamente in un’immagine ideale di sé (giovane ragazza pronta a raggiungere l’ambito successo), che si rovescia nelle lacrime che scorrono sul suo volto truccato davanti ai due specchi della toilette di casa, uno piccolo e tondo che le incornicia il volto, e uno più grande. Quelle lacrime sporcano una faccia mai veramente truccata, mai capace di giocare un ruolo sulla scacchiera sociale. E il rimmel umido che tinge le lacrime e scivola sul volto indica il dissolversi di quel fragile, difficile, illusorio stare al mondo per una ragazza senza mondo, distante da quello contadino da cui proviene e incapace di farsene uno suo nel momento in cui la società, in assenza totale di valori, è attraversa da spinte e pulsioni fameliche, segnate dal consumo di tutto.

Il film è di una radicalità sorprendente e di un’attualità sconcertante, perché il disagio di Adriana non è segnato da dolore e inquietudine, da frustrazione e rabbia, da illusioni infrante. Se fosse tale il soggetto esisterebbe sia pur dolorosamente, il moltiplicarsi degli incontri risponderebbe all’inquietudine di qualcuno che cambia partner e situazioni per sfuggire agli impegni (come la protagonista di Un amore a Roma di Risi). Qui siamo oltre: Adriana è uno dei più grandi personaggi del cinema italiano, perché restituisce l’impossibilità del costituirsi di una qualsivoglia esperienza, del depositarsi di alcunché, e quando le umiliazioni si succedono ad intaccare una fragile illusione (entrare nel mondo dello spettacolo), quel vuoto nascosto diventa dominante e Adriana gli va incontro gettandosi dall’alto del suo appartamento.

Adriana, incapace di perseguire e utilizzare opportunisticamente la sua giovinezza e bellezza, sembra cercare solo rifugio in un attaccamento affettivo. Questo le dice la signora a cui si rivolge per abortire, e che vorrebbe avviarla di fatto alla prostituzione: «Ma tu invece mi pare che vai un po’ allo sbaraglio, tipo pesca benefica dei mutilatini. Ma scusa non sai neanche chi è il padre!» «Sì è vero, però è diverso, io ogni volta mi affeziono, e allora… Ma a mettersi a cercare così, per calcolo… E poi è faticoso. Magari ti capita il vecchio, brutto, che non ti porta neanche a divertire, a ballare» «I reumatismi sono un sintomo di ricchezza».

Il dialogo chiarisce la distanza totale di Adriana da qualsiasi possibilità di relazionarsi in forma interessata al mondo; distanza profonda da una ogni forma di preservazione dell’io, perché quell’io non esiste, è un deposito di cliché e miti corrivi, che portano ad una forma di ilare apatia, di distanza da sé, in un mondo senza più coordinate (valori, riti, istituzioni) di crescita per il soggetto, e totalmente assorbito dalla spirale del boom.

Il punto significativo risiede nella costruzione paratattica del film, nell’e congiunzione con cui si succedono situazioni e personaggi, che opera un duplice scarto sia dall’arco narrativo ascensionale, sia dalla episodicità bozzettistica e grottesca di molto cinema coevo. Detto altrimenti, non si tratta né di raccontare una storia, perché per esserci storia deve esserci azione e cioè dialettica temporale tra passato, presente e futuro, né di costruire una maschera, perché Adriana non ha ruolo né identità, quindi neanche maschera. Dice Pietrangeli: < >>.

L’analogia “minerale” di Pietrangeli rivela qualcosa in più del personaggio di Adriana. La progressiva perdita dei tratti di umanità non prende i modi, più tipicamente maschili, dell’animalità brutale, neanche quelli di una passività vegetale dotata comunque di un suo “respiro”. Niente affatto, Adriana perde la sua umanità nascondendola dietro un’“allegra spensieratezza”, perché perde il tempo, e con ciò stesso il desiderio, di reinventarlo, di sognarlo, di animarlo, di immaginarlo altrimenti da quel succedersi regolare e indifferente di situazioni ed incontri al fondo tutti uguali, senza aspettative e senza scarti, senza sogni e senza vere aspirazioni (se non quella di essere coccolata dal primo che capita), e con il risultato di mettersi in condizione di perenne umiliazione.

Il puro presente di Adriana è la forma che prende l’indifferenza ilare, una mobilità apparente che conferma invece l’impossibilità di cambiare, di modificarsi, come un sasso. E senza parole che possano indicare il formarsi di una qualche esperienza. Adriana nasconde tutto, in primo luogo a se stessa, accumula senza sommare, transita senza spostarsi e la struttura del film, che abbiamo definito paratattica, restituisce bene questo movimento sur place del personaggio.

L’assenza di storia, il suo carattere episodico, l’intercambiabilità delle situazioni, il mutismo del personaggio, non danno vita alla sintesi fulminea del bozzetto, e alla costruzione della maschera, che prevede comunque una identità del “ruolo”, ma una sorta di accumulo senza progresso che corrisponde al progressivo slittamento del personaggio verso un’animazione inanimata, verso un essere “sasso”, cosa tra le cose. Lo slittamento dell’umano verso la “cosa” è contemplato come una delle possibilità dell’umano stesso, fin dal diritto romano, ma qui emerge come la possibilità più propria per un mondo segnato dalla mercificazione di tutte le cose. Ed è così che per la prima volta nel cinema italiano emerge un personaggio (apparentemente ilare, leggero), che non è al fondo separato da uno stato di “cosa”, adagiata in un puro presente senza sviluppo, sottoposta alle intemperie del mondo che la portano a morire. Quando il desiderio viene ad essere cancellato, il soggetto arretra fino alla “cosalità” vera e propria; e se le cose negli anni del boom si trasformano in merci, oggetti di consumo, il soggetto che vi si rapporta vi corrisponde rendendosi ad esse equivalente. Ma Adriana sente, pur non comprendendolo, l’arretramento di una umanità che manca di riconoscimento. È alla ricerca di un affetto che non giunge, di una vicinanza da cui non sentirsi abusata. Ma inutilmente: in un certo senso è lei stessa ad abusare di sé, riconsegnandosi come ragazza incapace di immaginarsi un qualche futuro. O meglio, Adriana realizza pienamente l’espropriazione di sé che il presente del boom richiede, alla quale resistono, invano, i malesseri delle donne di Antonioni o le spinte pulsionali delle maschere grottesche, che ribaltano l’inazione in un’azione eccessiva. In questi ultimi casi, il soggetto e il suo comportamento, sintetizzabile da un lato in una sorta di “autocoscienza” (consapevolezza del malessere), dall’altro nell’adesione totale al “ruolo” (indossare la maschera), comunque resistono. Adriana è non solo una figura senza ruolo, e dunque senza identità, ma è anche una ragazza che nasconde a se stessa i propri “sentimenti”. O meglio, la sua necessità di affezionarsi (come dice) risponde all’esigenza di un’adesività che eluda i rischi del formarsi di un mondo (desiderare qualcuno da amare, i figli da crescere ecc.), del costituirsi di una relazione; ma non è neanche una seduttrice opportunista che manipola gli uomini perseguendo un suo proprio fine. La sua condizione radicalizza e manifesta nel sorriso vuoto un processo compiuto di derealizzazione che culmina nel suicidio.

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Il Lessico del cinema italiano non è il solito libro di cinema: è un bel romanzo, dove i film entrano come testimoni di qualcosa che c’era prima di loro”. Con queste parole Gianni Amelio ha presentato il primo volume del “Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita” (Mimesis Edizioni), a cura di Roberto De Gaetano.

A fine ottobre è in uscita il secondo volume, che comprende le seguenti voci: “Habitus” di Giacomo Manzoli, “Identità” di Roberto De Gaetano, “Lingua” di Fabio Rossi, “Maschera” di Bruno Roberti, “Nemico” di Daniele Dottorini, “Opera” di Francesco Ceraolo e “Potere” di Gianni Canova.

“Il Lessico del cinema italiano” è un’opera in tre volumi e 21 voci (che vanno dalla A di Amore alla Z di Zapping), che proietta uno sguardo nuovo e costruisce una mappa concettuale inedita della grande tradizione del cinema italiano. 

Ogni voce si apre con il riferimento ad un film recente e ricostruisce genealogicamente la grande tradizione del cinema italiano dal muto ad oggi, letta attraverso la prospettiva tematica identificata dal lemma. Ogni voce si conclude con una filmografia costituita da 25 titoli chiave.

Il riscontro avuto dal “Lessico del cinema italiano” è stato molto significativo, con numerose iniziative e presentazioni, che hanno coinvolto non solo importanti sedi accademiche e istituzionali nazionali (Università Cattolica di Milano, Museo del Cinema di Torino, Cineteca Nazionale di Roma, Cineteca di Bologna), ma anche estere, come l’Università di Dusseldorf, o, più di recente, la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University, che è stata sede di due intense giornate di convegno dedicate all’opera: “Cinema and Italian Identity”

Maggiori informazioni sul progetto editoriale del Lessico sono disponibili sul sito www.lessicodelcinemaitaliano.it.