Alle 18.45 di ieri per diversi minuti nel cielo di Odessa hanno risuonato colpi d’artiglieria pesante a ripetizione. Il coprifuoco qui inizia alle 19 e le strade erano quasi vuote, molte finestre dei palazzi intorno all’hotel dove siamo si sono illuminate e degli sguardi perplessi e preoccupati si sono affacciati per capire cosa stesse succedendo.

Al momento non sono ancora state diramate informazioni ufficiali ma, data l’assenza di deflagrazione dopo gli spari, è lecito credere che si trattasse della contraerea ucraina o delle batterie che puntavano a obiettivi in avvicinamento, forse dal mare.

LA GIORNATA ERA INIZIATA con le dichiarazioni del segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale, Oleksiy Danilov: «La Russia sta progettando di sbarcare truppe nell’oblast di Odessa, ma l’Ucraina è pronta. I militari russi avevano previsto di farlo diversi giorni fa ma le condizioni meteo li hanno convinti a rimandare e si sono spostati in Crimea, ora però stanno tornando».

Forse le sue previsioni non erano lontane dalla realtà. Per tutta la notte, del resto, c’era stato un gran movimento di truppe e i rumori degli automezzi in manovra hanno rimpiazzato l’usuale silenzio delle nottate di coprifuoco. Ieri mattina abbiamo provato a chiedere ai militari di guardia a un checkpoint se fosse successo qualcosa in particolare ma loro, all’abituale diffidenza che si ha nel parlare con i giornalisti in questi casi, hanno aggiunto «normale cambiamento di turni, non possiamo essere sempre gli stessi qui».

Tutta questa loquacità ci ha un po’ insospettito ma, forse, è solo un’impressione. Rafforzata dal fatto che durante la giornata questi spostamenti di uomini e mezzi sono continuati e i controlli ai pochi punti del centro ancora aperti (ovvero non sbarrati dal filo spinato e dai blocchi di cemento) si sono fatti più severi.

DA QUANDO ANCHE la regione di Leopoli è stata bombardata la situazione è molto cambiata in Ucraina. Non perché l’attacco al centro di addestramento di Yavoriv abbia spostato gli equilibri delle forze in campo, ma perché si è incrinata una convinzione, condivisa dai più nel Paese, ovvero che «le forze russe non si azzarderanno a colpire la zona di Leopoli, è troppo vicina ai confini della Nato».

Non solo l’hanno fatto, ma tutto lascia intendere che continueranno. Forse è stata questa valutazione errata ad aver fatto abbassare la guardia nella zona, altrimenti non si spiega come i sistemi antiaerei non siano entrati in funzione o la base evacuata.

MOSCA NEI GIORNI SCORSI aveva lanciato un monito chiaro: «Considereremo obiettivi legittimi tutti i luoghi in cui abbiamo riscontrato la presenza di uomini e mezzi militari stranieri, oltre ai convogli che introducono le armi straniere in Ucraina». In meno di 48 ore abbiamo assistito alla realizzazione di questa minaccia.

All’alba di domenica oltre 30 missili da crociera sono stati sparati contro il poligono militare di Yavoriv, a circa 25 chilometri dal confine polacco, uccidendo 35 persone e ferendone 134.

Superato quel quarto di chilometro c’è il confine orientale dell’Unione europea, della Nato e, forse, della Terza guerra mondiale. Yavoriv, sede dell’International peacekeeping and security centre” (Centro internazionale delle truppe di mantenimento della pace e della sicurezza, ndr), è un centro di addestramento del personale militare ucraino e ha ospitato anche istruttori stranieri, provenienti sia dagli Stati uniti sia da altri paesi Nato.

In passato è stata usata anche come base di appoggio per alcune esercitazioni internazionali dell’Alleanza atlantica tra cui quelle dello scorso autunno.

Non è difficile vedere in quest’attacco un monito del Cremlino a quell’«allargamento a est» che Mosca ha da sempre indicato come una delle cause scatenanti della sua azione militare. Fonti vicine al governo russo hanno rilanciato su molti canali la notizia che 180 «mercenari stranieri» sono stati uccisi nell’attacco a Yavoriv.

NON SOLO, il governo russo ha poi fatto sapere che continuerà a uccidere quegli stranieri attualmente in Ucraina che considera mercenari. Kiev non conferma queste cifre, ma senza rivelare la nazionalità dei morti e dei feriti le autorità locali hanno fatto sapere che, sebbene in passato la base abbia ospitato anche istruttori stranieri, al momento dell’attacco questi non erano presenti perché richiamati in patria dai propri governi prima dell’inizio della guerra.

E DOMENICA È MORTO il primo reporter dall’inizio delle ostilità. Si tratta di Brent Renaud, americano di 51 anni, che sarebbe stato colpito con un colpo al collo da militari russi di guardia a un ponte nella zona di Irpin, stando a quanto riferisce Juan, un collega che era con lui e che è stato ferito in modo lieve e trasportato all’ospedale.

Il giornalista aveva indosso un vecchio tesserino da giornalista del New York Times, risalente a un lavoro svolto per la testata americana nel 2015, e inizialmente era stato presentato come inviato di guerra. In seguito, si è saputo che Renaud era qui per suo conto con alcuni colleghi per documentare la situazione e indossava un giubbotto antiproiettile con la scritta «peacekeeper».

Resta ancora da chiarire la dinamica esatta della sparatoria e com’è possibile che le truppe russe che avrebbero sparato fossero così vicine a un checkpoint ucraino. Ma per questo ci vorrà tempo, in guerra alcuni eventi passano in secondo piano.

NON SI PUÒ TACERE, però, l’attacco di ieri mattina alla città di Donetsk, capitale di una delle due repubbliche separatiste del Donbass. Poco prima delle 12 italiane un razzo, forse un Tocka, ha colpito un palazzo in pieno centro città provocando almeno venti morti e altrettanti feriti.

Secondo le poche informazioni finora diffuse, sia di parte russa sia informali (reporter presenti in zona, canali social) sembra che il razzo fosse diretto a un’infrastruttura civile oltre la città. Tuttavia, la contraerea ne ha intercettato la traiettoria e l’ha colpito prima che raggiungesse il suo obiettivo.

Sfortunatamente la parte che non è esplosa in aria e che è poi precipitata era proprio quella contenente il detonatore. Così, stando a questa prima ricostruzione non confermata, anche nel Donbass oggi i cittadini piangono le proprie vittime civili.

Come a Mariupol, dove secondo uno dei consiglieri militari di Zelensky, Oleksiy Arestovych, dall’inizio dell’assedio delle truppe russe e dei bombardamenti i morti sarebbero già almeno 2.500.