In una notte d’insonnia dell’inizio ’66, il pittore Bernard Rancillac decide di occuparsi nelle sue opere di un solo argomento: gli avvenimenti più importanti di quell’anno. E’ così che accanto a eventi di costume, descrive atrocità e ingiustizie come la guerra in Vietnam e in Palestina, la rivoluzione culturale cinese, la carestia in India, l’apartheid in Sud Africa, i conflitti razziali negli Stati Uniti. Se “La pulpeuse, la délicieuse” racconta l’apparizione del bikini sulle spiagge e le sue ripercussioni sulla nuova silhouette femminile, “Pilules, Capsules, Conciliabules” riporta la battaglia per la contraccezione e il diritto di aborto. “Sainte-Mère La Vache” denuncia l’abbondanza dei beni di consumo nei paesi ricchi e la mancanza d’acqua nel Terzo Mondo. Nel quadro usa la tecnica adottata in gran parte della sua produzione dipinta su tela con colori acrilici inserendo immagini riprese dalla stampa. In alto la scatola rotonda dei formaggini La vache qui rit, diffusissimi in Francia, che spicca sull’azzurro come un grande sole incombente che inaridisce il deserto. Sotto sullo sfondo giallo acceso un ragazzo e una donna accanto a una mucca ossuta trasportano un otre di acqua. La conquista della Luna è al centro di “La fiancée de l’espace”, dove critica la competizione tra Urss e Stati Uniti. Una figura femminile con una muta da subacquea attaccata a numerosi cavi attorcigliati come serpenti sembra galleggiare su uno sfondo blu. “Enfin silhouette affinée jusqu’à la taille”, la scena di tortura di un combattente vietnamita da parte di soldati americani è affiancata dalla pubblicità di una guaina dimagrante.
Sono solo una piccola parte della vastissima produzione che ha svolto in cinquant’anni di attività, riproposta nella bellissima retrospettiva curata da Josette Rasle per il Musée de la Poste di Parigi, fino al 7 giugno. Nascono, come tutto il resto, dall’intento di Rancillac di mettere sotto gli occhi di tutti gli avvenimenti che il pubblico può riconoscere. “Come avviene con le tele di Velasquez e di Goya che ‘parlavano’ alle persone della loro epoca. E’ questo che m’interessa”, dice il pittore, “voglio ritrovare il rapporto attivo con il mondo, la parola comune al pittore e al suo pubblico, ricaricare l’arte con il dinamismo della vita”. E nello stesso tempo suscitare uno sguardo critico sulla fabbrica dell’opinione pubblica e degli avvenimenti della società, a cui aggiunge il sorriso spesso amaro dell’ironia. Non sempre è stato capito, chi era intenzionato a comprare un suo quadro spesso gli diceva: ”Non vorrete che appenda in casa mia una tela sulle torture in Vietnam!”. Come se l’arte avesse il compito di decorare le pareti di un appartamento.
Nato a Parigi nel 1931, vive i primi anni in Algeria dove suo padre insegna lettere classiche. Dotato per il disegno, viene avviato di controvoglia a una scuola d’arte per diventare professore nei licei, occupazione che ha svolto per molti anni fino a approdare all’insegnamento universitario affiancandolo negli anni ottanta al teatro come scenografo e attore. Antimilitarista, è costretto a fare il servizio militare. Sceglie il Marocco dove suo nonno era stato presidente del tribunale di Fez. Saranno questi lunghi soggiorni in Nord Africa a instillargli la predilezione per i colori forti, decisi, violenti dalle tonalità energetiche. Fin dall’inizio degli anni sessanta milita nella corrente che verrà chiamata Nuova Figurazione con i compagni di strada Hervé Télémaque, Peter Klasen, Jacques Monory, Jan Voss. La loro intenzione è quella di congedarsi dalla pittura astratta, che in quel momento gode ancora grande credito ma che ormai ha esaurito la sua inventiva.
I temi trattati mostrano chiaramente che la sua è una pittura di protesta. Con la forza dell’immagine vuole incidere sul pubblico, far reagire i visitatori a ogni nuova mostra. Si serve della sua arte come di un’arma che denuncia l’ingiustizia di un avvenimento e la scorrettezza con cui viene trattato dai media che ne provocano la banalizzazione e il rifiuto, addormentando le coscienze. Nel maggio ’68 partecipa attivamente a sostegno degli studenti e dei lavoratori e inventa il celebre manifesto con la fotografia di Cohn-Bendit che esibisce lo slogan: “Siamo tutti ebrei e tedeschi”. Nella mostra dell’ottobre dello stesso anno rende omaggio ai suoi eroi americani: Kerouac, Ginsberg, Burroughs, Malcolm X. La tecnica cambia. Le fotografie non vengono più riportate sulla tela ma sul plexiglas che offre nuove possibilità di riproduzioni multiple, effetti di ombre, di trasparenze, di spostamento nello spazio. Una tecnica che rende l’espressione più fredda ma più fluida. Nella serie “Jazz” i musicisti, i cantanti non hanno più connotati precisi, sembrano dissolversi nello sfondo, mentre prevalgono il bianco, il rosso, il blu. Questa tecnica rafforza l’anonimato delle star rappresentate, come se l’esposizione eccessiva le avesse rese invisibili, confermando anche il ruolo marginale dei neri nella società americana.
Un’immagine ricorrente nei quadri di Rancillac è Topolino in compagnia o no dei suoi comprimari dei comics. L’uso delle immagini degli eroi disneyani ha suggerito il riferimento alla Pop Art. Ma il pittore islandese Errò, che ha fatto dei fumetti un suo mito personale, ha inventato una spiegazione curiosa ma acuta della differenza tra Pop Art americana e figurazione narrativa europea: “Pop Art, tre lettere, tre secondi per capire il quadro. Figurazione Narrativa, diciannove lettere, diciannove secondi!”. Topolino con la barbetta da ebreo al muro del pianto segue altri israeliti ammiccando con lo sguardo allo spettatore, vestito con il mantello da apprendista stregone intona la preghiera della sera accanto al minareto. “Bloody Comics” del 1997 sbeffeggia i generali golpisti cileni che hanno le facce di Gamba di Legno, Paperino, Pluto. Mentre Topolino camuffato da agente della Cia tiene d’occhio Braccio di Ferro/Jimmy Carter.
Nel suo lavoro si è ispirato a numerose attrici, cantanti e donne comuni dei paesi in guerra. Ma è in “Jeune égorgée” che tocca il tema attuale dei maltrattamenti alle donne, facendo prevalere il rosso del sangue del femminicidio. Non poteva mancare la denuncia contro Saddam Hussein. Se sono state numerose le sue imprese criminali, una che ha sconvolto tutto il mondo è il massacro dei curdi di Halabja, dove nel 1988 durante due giorni ha sterminato con il gas cinquemila persone. Nel sacrario a loro dedicato si possono vedere le foto terrificanti dell’eccidio. L’artista ricorre alla complessità dell’installazione, “La valise de Bagdad”, per far vedere come il volto apparentemente bonario di un sorridente Saddam, in parte coperto da uno svolazzante genio del male e dio della vendetta, nasconda l’orrore. Nel baule che sta sotto, pezzi di bambolotti con gli occhi sbarrati, peluche di un orsetto, di un cammello, di un leone, ricordano i tanti bambini scomparsi nelle tragiche giornate.