I contatti fra Israele e l’Amministrazione Trump sulle future costruzioni nelle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata proseguono e finora non sono state raggiunte intese definitive. Lo spiegava due giorni fa Benyamin Netanyahu. Il premier ha smentito le indiscrezioni di stampa su una presunta disponibilità israeliana a limitare l’espansione degli insediamenti. «Voglio precisare – ha detto – che in quelle informazioni ci sono molti elementi non corretti. Posso confermare che i nostri colloqui con la Casa Bianca proseguono e spero si concluderanno presto». Comunque andranno a finire i negoziati, i coloni israeliani nei Territori occupati esultano e brindano alla fine dell’idea di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico.

Secondo i dati del ministero dell’interno aggiornati al 1 gennaio 2017, resi noti domenica dall’ex parlamentare e fondatore del movimento dei coloni Yaakov Katz, in Cisgiordania sono insediati 420,899 israeliani. Nel 2016 erano 406,332. L’aumento dal 2012, quando i coloni erano 342,414, è stato del 23%. Questo dato non comprende gli israeliani, oltre 200mila, residenti negli insediamenti costruiti nel settore palestinese (Est) di Gerusalemme, occupato durante la Guerra dei sei giorni del 1967. I coloni perciò invitano a prendere atto di questa realtà che, dicono, ha messo fine per sempre alla soluzione dei Due Stati, Israele e Palestina. «Il numero degli ebrei che vivono oggi in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) la dice lunga – spiega Katz – I fatti sul terreno in questa regione sono irreversibili e rendono obsoleta l’idea dei Due Stati…Qualsiasi cosa diranno o penseranno Angela Merkel, Trump o qualcun altro, (quella soluzione) appartiene al passato e non al futuro». Un punto che fa sempre più breccia anche tra le colombe di centrosinistra (non solo in Israele) che poco alla volta, senza darlo a vedere, passano nell’altro campo, a destra.

L’agenzia di stampa della destra religiosa israeliana Arutz 7 ieri ricordava che a fare i conti con la “realtà” delle colonie è stato anche il noto romanziere Abraham B.Yehoshua sostenitore per anni dei Due Stati. «Questa soluzione non è più possibile – ha proclamò lo scorso dicembre Yehoshua ai microfoni di Kol Israel, la radio pubblica – Ho creduto nei Due Stati per 50 anni, ho combattuto per essa…come intellettuale devo affrontare la realtà e non illudermi, devo domandarmi se questa soluzione è davvero possibile. Interiorizziamo che è impossibile deportare 450.000 coloni, non accadrà, in nessun caso. Possiamo dividere Gerusalemme? È il momento di cominciare a pensare di soluzioni alternative». Quali siano le “alternative” Yehoshua non lo precisò. Anche lo scrittore israeliano, considerato un pacifista all’estero, pensa che la soluzione sia lo status quo, ossia colonizzazione e occupazione militare? In quel caso non sarebbe diverso da Donald Trump che il mese scorso, durante l’incontro con Netanyahu alla Casa Bianca, tra un sorriso e una battuta aveva evocato altre possibilità oltre quella dei Due Stati, senza però indicarne alcuna. A questo punto è irrilevante che qualche esponente occidentale, come ha fatto ieri l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, riaffermi l’impegno dell’Europa per lo Stato di Palestina e l’illegalità degli insediamenti israeliani. Tanto la colonizzazione nessuno la ferma e lo Stato palestinese sovrano non potrà esistere.

Presto il governo israeliano e la destra, laica e religiosa, potrebbero festeggiare un altro traguardo di eccezionale importanza. Parlando di fronte alle centinaia di delegati, tra i quali non pochi coloni israeliani, alla conferenza annuale dell’Aipac (il più importante gruppo di pressione americano a sostegno di Israele), il vice presidente americano Mike Pence l’altra sera ha affermato che Trump sta considerando seriamente la possibilità di trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, proprio come aveva annunciato durante la campagna elettorale.

Sullo sfondo c’è la tensione nei Territori occupati, in queste ultime ore di nuovo lungo le linee tra Gaza e Israele. Il movimento islamico Hamas ripete che vendicherà l’assassinio compiuto venerdì scorso a Gaza city di uno dei suoi comandanti militari, Mazen Faqha. Assassinio che attribuisce a Israele. Tel Aviv da parte sua non conferma e non smentisce. Gli indizi in effetti indicano la pista israeliana. Il killer (forse due) ha agito con grande professionalità. Ha atteso Faqha per ore nel garage della sua abitazione e mentre l’esponente di Hamas parcheggiava l’auto gli ha sparato quattro colpi alla testa con una pistola con il silenziatore. Poi con calma si è dileguato. Gli investigatori di Hamas inizialmente avevano parlato di un collaborazionista di Israele, poi si è fatta strada l’ipotesi di un agente dei servizi segreti israeliani scappato da Gaza forse via mare.