Non avrà avuto la forza iconica dei pugni chiusi alzati al cielo del Messico da John Carlos a e Tommie Smith alle olimpiadi del 1968, ma quando i  Clippers di Los Angeles domenica scorsa hanno  gettato a  centrocampo le tute per rivelare le uniformi da riscaldamento indossate al contrario, è stato un gesto inequivocabile che come allora ha messo lo sport al centro della vita politica di un paese.

Le squallide dichiarazioni del proprietario dei Clippers, l’ottuagenario magnate immobiliare Robert Sterling, immortalato mentre redarguisce la propria “olgettina” – tra l’altro di razza mista messicana e afroamericana – perché “bazzica quella gente”, lo “imbarazza” postando selfie instagram assieme a “negri” (Magic Johnson) e “li porti alle mie partite”, erano esplose come una bomba sui playoff di basket. Il basket, ovvero quello sport in cui squadre composte per l’80% di atleti neri fanno la fortuna dei miliardari bianchi che le gestiscono. Lo sport più inestricabilmente legato all’identità nera, all’hip-hop, all’ineffabile “cool” della urban culture – squisito eufemismo per la cultura “black” la cui irresistibile forza è costantemente co-optata da moda, sponsor e il complesso corporate che ne incassa i lauti dividendi.

La vicenda è diventata il  caso mediatico dell’anno, all’incrocio di sport, cultura e politica, su cui è intervenuto anche il presidente afroamericano, quello per cui la passione del basket è l’unica concessione in un altrimenti rigoroso “riserbo” razziale. Obama tra l’altro ha detto: “Le affermazioni del padrone dei Clippers; si commentano da sole (…) Gli Stati Uniti continuano tutt’oggi  a fare i conti con un retaggio di razza, schiavitù e segregazione. Le vestigia della discriminazione sono ancora con noi.”  La risposta politica e istituzionale e l’esemplare punizione data a Sterling dalla lega sono significative e un utile paragone anche in un momento in cui il calcio europeo vive l’ennesima vicenda di “razzismo popolare”.

Per Sterling le esternazioni spregevoli sono un vecchio vizio, di solito indirizzato agli inquilini delle centinaia di appartamenti che possiede  in quartieri disagiati di Hollywood e Koreatown, i quali ha pubblicamente indicato (ricavandone anche alcune querele e salate multe) di non voler affittare a “negri e messicani”.  Ma la sua ultima uscita, sotto i riflettori dei playoff ha galvanizzato l’indignazione di una nazione che aveva appena finito di commentare il caso Cliven Bundy, il rancher del Nevada assurto a beniamino conservatore per “l’eroica  resistenza”” contro gli odiati strozzini del fisco federale che la scorsa settimana ha ritenuto di esporre le sue idee sulla società multietnica in diretta TV (“loro stavano meglio da schiavi”).  Sterling è stato dunque il secondo ravvicinato rigurgito del “retaggio” di cui ha parlato Obama.

Il suo schiaffo allo sport, ai tifosi e alla sua stessa squadra ha allibito l’America. E frastornato proprio i suoi giocatori che quest’anno,  dopo interminabili anni bui passati come derisi fanalini di coda –  nella perenne ombra dei magici Lakers – erano infine  arrivati vicino alla vetta del miglior basket  del mondo grazie a campioni come Chris Paul, DeAndre Jordan e Blake Griffin. Quando ieri, sui gradini del municipio di Los Angeles, affiancato dal sindaco Garcetti, il commissioner della NBA Adam Silver ha annunciato la squalifica a vita e l’interdizione perpetua di Sterling da ogni campo di basket la “sentenza” è stata accolta da uno scroscio di applause. Il sorriso stampato sulle labbra di Kareem Abdul Jabbar, fra i molti cestistsi presenti,  è stato un significativo commento.  Quello dei Clippers sul parquet dello Staples Center quella stessa sera forse ancora di più. In una partita singolare tutte le innumerevoli insegne di sponsor all’interno del palazzetto sono state oscurate e sostituite con lo slogan “We Are One”, echeggiato da centinaia di cartelli di tifosi sugli spalti che hanno trasformato la partita in una specie di celebrazione della tolleranza. Sul campo i Clippers  hanno battuto i Golden State Warriors 113-103; con un altra vittoria potrebbero passare il turno. Ma anche se non dovessero farlo questi playoff  – come le olimpiadi del ’68 – sono entrati nella storia.